Novella ultima su Marina di Bitinia, che l’amore travestì

di in: Bazar

Per liberarmi di te, con te torno a parlare ancora per quella che confido essere l’ultima volta. Se sin dal nostro primo incontro ti ho fraintesa, e poi più volte mancata, tu lo sai, fu l’ambizione, da giovani (magari anche dopo; non più a queste mie latitudini, spero, non più con quelle cecità); prospettive sovrapposte, quali piani distorti, quanto furenti, delusi in fretta, appena nascono equivocati. Oggi non più, mi dico; è tempo oggi di congedo.

L’incontro con la tua storia un regesto di sante tardoantiche; tante come te fattesi maschio in conventi di uomini: la tua devozione di figlia mi intrigò, certo non la sorda penitenza di rinchiuderti in una grotta, il frutto del peccato altrui da accudire, glossa masochista, piffero buono per esibizioni di virtù che non m’appartenevano, non m’appartengono. Alla morte lo svelarsi del tuo corpo di femmina, sopra ogni cosa questa, sì, che confezione strepitosa: ostinatata cura, la tua, di non rivelarti, farti altra, costringendoti a una vita di misteri e silenzio, gli altri, i monaci, costretti dalla tua ostinazione, ebetiti, accecati, tu, così trasfigurata da quella forma che il mondo avrebbe voluto si compisse per destino naturale.

Correva, acceso di fremiti e torbido, l’anno mille e novecentonovantasette, governato su tutti da un fremito, che credetti, sperai arricchire la mia scrittura, donandola anche di quell’incantesimo superbo che ha nome teatro; e con il teatro prefigurai di avvicinarti concreta sulla carta.

Ti avvicinai con il naturale approccio di chi circumnaviga: appunti balbuzienti al fianco della ieraticità, alquanto ingombrante, di certi schizzi intorno a una macchina scenica (ad apertura e chiusura avrebbe disegnato i luoghi del tuo agire) ai miei occhi compensavano l’inadempienza, nutrendo di esaltati furori ogni speranza. Non ti scrissi, non ti figurai; lo slancio mancò, si vestì di propositi, qualsiasi opportuna traduzione di te evanescendo; stavo soffiando sull’azione, la facevo timida, la spegnevo, ne decretavo la stasi, quando avrebbe dovuto alzarsi, magari gesticolando inconsulta, mossa dal disordine, sporca e priva di grazia, azione, però, che si compie e solo dopo si lascia dire.

L’occasione dietro è calva, dice l’ebreo di Marlowe; passata, chiedi molto e nulla ottieni. Quattro anni, quattro se ne andarono prima che lavorassi quel lapillo, la frenesia d’essere in ritardo, di non riuscire a recuperarti agendomi; arido e freddo lapillo, compiuto perché completato, più incompleto e manchevole d’un torso mutilo, eppure magnificamente espressivo, che si recuperi in qualche scavo felice. Nulla ne conserva la memoria, se non l’immagine tua, così crudamente malsana, animata da chissà quali scadute convenzioni letterarie. L’incontro nostro, Marina, era fallito, mi dissi, senza speranza di rinascita. Rinascita tuttavia si diede ancora, quattro anni dopo, per quell’ultimo, malinteso incontro; del tempo ci volle perché capissi quanto ancora avevo continuato a fraintenderti, ricoprendo le tue reali motivazioni, la tua concreta natura con certe turpitudini di facciata, in quella circostanza sostenute dalla sfrenatezza funesta di innalzarti su una specie di piedistallo, tribuna vociante che occultava la vacuità, la debolezza dell’immagine con cui m’ostinavo a darti la vita.

Traversato oramai un tempo così lungo, logorata qualsiasi speranza di rincontrarci nuovamente, l’amore, l’amore che ti spinse a raggiungere tuo padre in convento, lo persuase a farti entrare con l’inganno e, lui morto, ti indusse per così tanto a conservare il segreto, oggi è quell’amore a interrogarmi, sedurmi, confondermi; non solo l’amore sincero di una figlia, non più l’amore, larva incestuosa e vendicativa, che per te immaginai; un amore assai più stratificato, l’amore per ciò che rimane sconosciuto, l’oscuro di una vita in volontaria reclusione, che riempie di borbottii, invocazioni insistite le albe e i tramonti dentro lugubri stanze, eremi sperduti: qualcosa così dapprincipio ti attrasse, Marina? Cos’era quella terribile, imperativa forza che ti permise per tanti e tanti anni, tu, rimasta orfana, di costringerti al silenzio, quale meraviglia potente hai saputo manovrare tanto da annebbiare la vista di chi ti era accanto? Se il primo, naturale bisogno di affetto verso tuo padre ti mosse, cosa avvenne, cosa non ti fece cedere? Farti maschio, farti santa, pretendere per te ciò che a te era precluso? Questo nuovo dio, così prepotente, dio che esige, tuo secondo padre; quella vita, carica di silenzio, lontana dallo sporco, l’ingiusto che popola le esistenze degli altri; l’abito che indossavi, schermo, identità, vessillo orgoglioso; mendicare, lavorare la terra, non farti moglie, madre, non servire un uomo dopo tuo padre, indegno al suo confronto; il tuo corpo protetto, fatto scrigno, liberato dagli assilli del piacere, dal dovere di consegnarlo quanto più tardi alle brutture del tempo, alla decrepitezza, all’incuria; nel tuo corpo il sangue cacciato ogni mese ti denunciava fertile, degna d’essere fecondata, così perdutamente, così ostinata tu lo cancellavi, l’odore, il segno, quello, unico a ricordarti chi eri in realtà.

Oggi è di questo amore che vorrei parlarti, con questo amore farmi a te vicino; ma per questo medesimo amore, il tuo, a te intimamente legato, intendo congedarti, congedarmi. Per tanti e tanti anni, Marina, portarsi dentro i resti di falliti amori letterari è come preservare ad inutile memoria un moncherino cancrenoso. Ad essere meno truculento, da te mi congeda quella scena, all’esordio del Wilhelm Meister, plastica metafora della nascita di una vocazione teatrale: il piccolo Wilhelm, ricevuto in dono a Natale un teatro di burattini, estasiato osserva, preda di uno sbigottimento che gli ottunde i sensi, le delizie di quelle cadenze meccaniche, le stridule vocine, petulanti; la seconda volta, terminata la rappresentazione, scopre il sipario, ricavato nello specchio di una porta, e dietro lo spartano assito, funto da palcoscenico, osserva degli uomini intenti a riporre dentro cassapanche i burattini smorti, inerti, intricati ai loro fili, capaci di donare e togliere la vita. La curiosità di svelare i reconditi meccanismi che governano l’incanto del teatro uccide quell’incanto nel momento stesso in cui lo rivela, ma rivelandolo lo riproduce, in una catena interminabile che fa del teatrante il prigioniero e il carceriere di se stesso, turbato artefice della suggestione che riceve e dona.

Questo stupore, tutta l’intensa meraviglia subita, talvolta, Marina, sono tali che la malìa di liberartene, dominandoli, un po’ alla volta ti strema, facendo di te non un accorto timoniere, ma il più sprovveduto dei naufraghi, dal capriccio dei venti sospinto; dapprima spaesato in cerca di un approdo propizio, poi con lo scopo unico di scampare la rovina.