Dopo Kundera

Simona Carretta prosegue la sua esplorazione dell'"arte del saggio" partendo dalla scomparsa di Milan Kundera per discutere delle prospettive della critica e della letteratura contemporanee.

La morte del romanziere Milan Kundera, sopraggiunta lo scorso 11 luglio, ha suscitato in Italia un clamore inatteso, come dimostrano gli articoli comparsi all’indomani su tutti i quotidiani italiani e i numerosi commenti degli internauti. Affetto, quello da parte del nostro paese, peraltro ricambiato dal romanziere quando era in vita. Per l’amicizia che lo legava al suo traduttore italiano, Massimo Rizzante, e all’editore Roberto Calasso proprio l’Italia era stato il paese che Kundera aveva scelto per pubblicarvi in anteprima il suo ultimo romanzo, La festa dell’insignificanza (2013). Un affetto però non unanime, come quasi mai quello verso figure che in un modo o nell’altro hanno segnato la storia dell’arte o della disciplina a cui hanno applicato il loro genio. Così per Kundera. Se nella nativa Repubblica Ceca che il romanziere aveva abbandonato nel 1975 la ricezione dei suoi saggi e romanzi è sempre stata complessa, non privo di incomprensioni è stato anche il rapporto con il paese adottivo, la Francia. Da noi in Italia, dove la ricezione di Kundera non è stata influenzata dalla sua vicenda biografica, a complicarla sono state piuttosto ragioni di carattere culturale. In quale modo sono state lette le sue opere nel nostro paese, dove pure Kundera ha ottenuto un grande successo? A godere di una certa popolarità è stato il Kundera autore di romanzi come lo Scherzo (1967) e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), dunque lo scrittore irriverente verso i regimi o l’ideatore di grandi storie d’amore. Mentre il Kundera critico, ispiratore di una originale concezione estetica del romanzo come arte capace di una propria espansione conoscitiva, che lo stesso autore ha ben illustrato nei suoi quattro saggi (L’arte del romanzo, I testamenti traditi, Il sipario e Un incontro), è stato in parte misconosciuto o non capito da parte dei lettori e degli studiosi italiani. Ma se è vero che in ogni grande romanziere c’è un grande critico (qualcuno cioè che sa cosa aspettarsi dall’arte di cui si occupa), in mancanza di una giusta comprensione della visione estetica di Kundera anche quella dei suoi romanzi risulta dimidiata. Quali fattori l’hanno ostacolata? All’inizio degli anni Novanta, in un periodo in cui il romanziere cominciava appena ad essere noto al grande pubblico, è calata come una scure la sentenza di Franco Moretti: «un continente che s’innamora di Milan Kundera faccia pure la fine di Atlantide»[1]. Questa compariva nella conclusione di un saggio del 1991 in cui lo studioso contrapponeva la sua visione di un’Europa multiculturale all’ipotesi di una sua supposta omogeneità, che attribuiva ad autori come Kundera intravedendovi il rifiuto a un confronto con il resto della letteratura mondiale. Ma la fiducia kunderiana nell’esistenza di un romanzo europeo non presuppone la sua chiusura entro dei ristretti confini geografici; e se Kundera ha ipotizzato che una certa tradizione del romanzo sia nata sul suolo europeo in concomitanza con l’avvio dell’epoca moderna, è stato poi il primo a riconoscere che, in particolare a partire dalla seconda metà del XX secolo, questa abbia proseguito il suo sviluppo spingendosi «al di sotto del trentacinquesimo parallelo» grazie all’opera di romanzieri come Patrick Chamoiseau, Alejo Carpentier o Salman Rushdie. Nel frattempo però ci avrebbe pensato lo spirito del tempo ad allargare il solco della resistenza incontrata dal suo pensiero estetico. Ricordo che Kundera una volta ha ipotizzato come può morire il romanzo. Esso non scompare ma si riduce a un vuoto canovaccio: «e dopo non rimane altro che il tempo della ripetizione». Da un po’ però sappiamo come muore anche la critica: trasformandosi in uno dei «paradossi terminali», felice espressione con cui Kundera alludeva al rovesciamento del senso che investe tutti i valori e che, nel caso della critica, la trasforma da discorso rivolto all’esame e alla discussione delle opere a esercizio di conferma del già noto.

Così l’idea proposta da Kundera di una conoscenza specifica del romanzo, una conoscenza da intendersi come «saggezza dell’incertezza» – vasto territorio in cui ciascuno ha diritto alle sue ragioni, Anna non meno di Karenin –, si scontra con la tendenza di ritorno a ricercare nelle opere il riflesso di teorie già assodate. La stessa parola «arte», a cui Kundera ricorre per qualificare un romanzo che non si accontenta solo di raccontare una storia ma esplora attraverso i personaggi aspetti dimenticati dell’esistenza, è oggi caduta in disuso: si preferisce ricondurre il suo significato all’ambito più generico dei media perché la sua ricerca è considerata troppo velleitaria, inesauribile. Il pensiero scientifico applicato all’arte in questo modo però rischia di ridurre la sua portata, rinunciando a misurarsi davvero con l’altro da sé. La grande misconosciuta è allora la forma ossia tutto ciò che non può essere semplicemente “veicolato” nel passaggio tra i diversi mezzi; quel qualcosa che impedisce, ad esempio, a un tema romanzesco di fissarsi in un contenuto univoco. In giro si avverte una grande sete di realtà, che respinge i discorsi di carattere estetico come astrazioni. Ma in ciascuno dei saggi in cui Kundera riflette sulla sua poetica o su romanzi di altri autori (saggi raccolti in gran parte nell’ultimo volume, Un incontro), ciò che egli fa è indicare il modo in cui il romanzo mette a fuoco i risvolti più concreti dei temi esplorati. Se allora nei suoi romanzi analizza una serie di interrogativi esistenziali (dal riso all’oblio, dal mistero dell’identità a quello della nostalgia), che scova tra gli aspetti dell’esistenza sfuggiti alla percezione comune, nelle letture critiche si concentra sul dettaglio in grado di illuminare il tema di un’opera. Descrivendo, ad esempio, il modo in cui la piccola protagonista del Cigno di Gudbergur Bergsson si ambienta nella fattoria dove trascorre alcuni mesi lontana dalla famiglia deduce che: «l’uomo esiste solo nella sua età concreta»; e che conoscere l’altro significa «comprendere l’età che sta attraversando». Medita su una citazione di Céline: «Ciò che nuoce nell’agonia degli uomini è l’esibizione».  Scopre ne L’idiota le diverse tipologie di riso, che non è solo comico ma può essere severo, sarcastico, espresso per conformismo non meno che per pura ilarità. In Professore di desiderio, il romanzo di Roth, mette in risalto il motivo dell’amore come durata, che affiora a tratti attraverso l’evocazione dei genitori del protagonista e rappresenta il contrafforte rispetto al quale comprendere le sue inquietudini sulla caducità dell’eros. Per il modo in cui, partendo dalla considerazione di un romanzo nel suo insieme Kundera va dritto al cuore della problematica esistenziale che esplora, si può dire che i suoi saggi concorrono alla funzione della letteratura, così ricordata da Ernesto Sabato: «svegliare l’uomo che va verso il patibolo». Come i romanzi, ciascuno dei saggi kunderiani sembra evocare l’ammonimento di Goethe: «Ricordati di vivere». Liberi da glosse o numerose citazioni, la loro struttura snella è ispirata a Nietzsche, da cui Kundera impara a «non snaturare la maniera in cui effettivamente ci sono venuti i pensieri». Ma in nessuna delle sue letture si scorgeranno residui impressionistici: l’io del saggista è altrettanto discreto di quello del romanziere. Ripercorrendone la tradizione, Kundera ha imparato che non si può capire il romanzo, e coglierne il dinamismo interno, se non si è familiarizzato con lo statuto del personaggio romanzesco, che è quello dell’io in situazione, aperto al caso e al confronto con logiche diverse. L’approccio saggistico rispettato da Kundera ricorda allora quello di Montaigne, che mette in relazione le letture e l’esperienza, e apre al ritorno ad una critica dialogica. Un ritorno perché, neanche troppo lontano, c’è stato un tempo in cui la critica e la teoria letteraria erano più in stretto rapporto con la vita. Kundera lo ricorda negli anni della sua prima formazione praghese, citando l’esempio di Jan Mukařovský, il fondatore dello Strutturalismo, che scrisse studi sulla prosa e la poesia ceche e veniva letto con la stessa attenzione dagli scrittori. Per Kundera: «li aiutò a diventare più consapevoli della forma di un’opera d’arte; più consapevoli della ‘struttura’, nella quale ogni elemento è legato a tutti gli altri e nessuno ha senso se preso autonomamente. Quell’epoca fu uno di quei rari momenti in cui la pratica e la teoria s’ispiravano reciprocamente e avevano molte cose da dirsi»[2].

 Nei nostri giorni sembra invece che i critici abbiano rinunciato ad aprire la strada agli scrittori, limitandosi a seguirli. In molti preferiscono registrare, come dei sismologi, le oscillazioni del mercato editoriale. Un lavoro da fare, che però non esaurisce tutte le possibilità inerenti al discorso critico, legate alla stessa etimologia del termine: «critica» deriva dalla radice indo-europea kar («fare»), che condivide con «creazione». Tra i richiami che lo stesso Kundera ci ha rivolto inserirei senza dubbio questo: l’invito a non disgiungere il pensiero dalla creazione. Ma la storia del romanzo – ricordava Kundera – è costellata di «richiami non ascoltati», possibilità di sviluppo intraviste dagli autori che l’hanno resa grande, poi dimenticate.


[1] Nel saggio La letteratura europea (1991), ora in: Franco Moretti, A una certa distanza. Leggere i testi letterari nel nuovo millennio (2013), G. Episcopo (a cura di), Carocci, Roma 2020, p. 37.

[2] Brano tratto dall’intervista a cura di Alain-André Morello (1996).