Alla ricerca della forma perduta.
Scuola, letteratura, realtà

Nei prossimi giorni gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado saranno impegnati nello svolgimento dei cosiddetti test INVALSI. In questo saggio, pubblicato nell'ultimo volume del “Seminario Internazionale sul Romanzo” dell’Università di Trento, il lettore è invitato a interrogarsi su tutto quello che, con l’avvento della logica delle "crocette", è andato perduto in termini di abilità compositive e creative.

Disegno di Franco Matticchio

Il mio amico Mario una volta mi ha raccontato questa storia. Qualcosa come una quarantina d’anni fa, non sapendo né avendo forse lui molta voglia di scrivere i temi che assegnavano a scuola, i genitori avevano deciso di mandarlo a lezioni private dal rinomato professor Mirra. Qual era il metodo del professor Mirra? Un metodo molto semplice, consistente nell’assegnare un tema a Mario e poi nel lasciare Mario lì, in un angolino, a scrivere; mentre lui, il professore, seduto in poltrona nella stessa stanza, leggeva romanzi popolari con le copertine illustrate da fumetti a colori, molto diffusi all’epoca. Non spiegava niente? Non dava indicazioni, suggerimenti? Niente, silenzio assoluto. Dopo un paio d’ore, il professore leggeva il tema svolto, apportava qualche correzione e licenziava Mario. Diedero i risultati sperati queste lezioni private? Pare di sì, perché dopo qualche mese Mario si accorse di non avere più difficoltà a scrivere temi, e il professor Mirra occupa ancora oggi, nei suoi ricordi, un posto di rilievo.

 

È inevitabile rimanere perplessi al cospetto di una storia del genere. Che razza di metodo era quello del professor Mirra? E soprattutto, come poteva risultare efficace? Ci ho pensato a lungo. Poi un bel giorno mi è venuto in mente che in fondo, fino a qualche tempo fa, quello era il metodo più diffuso a scuola per insegnare a scrivere. Metodo debole, per così dire, disarmante e disarmato, quasi zen: penna, foglio, silenzio assoluto e abbandono in un angolino (di casa o della classe scolastica). Era l’identico metodo di tutti i miei professori delle scuole elementari, delle medie e del liceo. Grazie a esso, generazioni e generazioni di giovani sono stati avviati alla contemplazione del mondo, e poi dalla contemplazione del mondo alla creazione attraverso il pensiero e le parole, all’invenzione di immagini e riflessioni critiche, all’elaborazione di racconti, teorie, ipotesi. In una parola: allo studio. Non esisteva modo migliore per imparare a vedere-pensare-scrivere, le tre attività fondamentali, secondo Nietzsche, per le quali abbiamo bisogno di un maestro. Un’antropotecnica minore, per parafrasare Peter Sloterdijk [1] ossia una pratica sociale di addestramento, in vista del miglioramento e dell’elevazione di sé: ecco che cos’erano i temi che si scrivevano una volta. Oggi, invece, temi non se ne scrivono più, quasi nessuno sa scriverne e nemmeno a scuola si insegnano più. Del resto, come si fa, nel mondo d’oggi, a insegnare qualcosa che richiede un’applicazione metodica sostanziata di nulla e di tutto allo stesso tempo?

 

Attraverso la composizione del tema, ciascuno trovava da solo la propria strada, e tutti erano portatori di una differenza e di un’eccezione. Chi per caso si smarriva, come il mio amico Mario, non doveva far altro che affidarsi alla sapienza mite e antica di sciamani paesani come il professor Mirra, che, riabituandolo e allenandolo a pochi e naturali gesti, lo avrebbero ricondotto presto sulla retta via. Il tema scolastico era uno degli strumenti fondamentali di una pratica pedagogica molto poco concentrata sulla prestazione e sui risultati, quasi distratta oserei dire, e aperta perciò a stravaganze e divagazioni di ogni genere; accogliente dunque, e a suo modo efficace. Fino a qualche anno fa eravamo tutti come Mario a casa del professor Mirra: abbandonati in un angolino o in un banco al nostro destino, e dovevamo scrivere. Così imparavamo a dare forma al tempo che passa. Nessuno ci diceva come si fa un tema; eppure tutti, in un modo o nell’altro, prima o poi, riuscivano a scrivere il proprio.

 

Da quando ho cominciato a insegnare Italiano, per alcuni lustri ho letto temi di ragazzini di scuola media, e ho imparato a riconoscere e apprezzare le peculiarità di ciascuna voce, le caratteristiche di un’intonazione, gli estri e le manie, i tic e le fughe, i percorsi nervosi della grafia che spesso erano trascrizioni esatte dei percorsi nervosi quotidiani. Niente più delle scritture dei miei studenti mi rivelava cose tanto profonde sulla vita in generale e sull’essere particolare di ciascuno di loro. Quei testi erano molto simili a delle opere letterarie. Leggere un tema scolastico, per me che sono stato allevato con il ‘metodo Mirra’, era come leggere un capitolo di un romanzo di formazione, e dunque equivaleva a fare un’esperienza nella quale chi leggeva non era meno coinvolto di chi aveva scritto. Ho sempre avuto in mente un progetto, che spero qualcuno un giorno potrà realizzare, di raccogliere i temi scritti da un certo numero di ragazze e ragazzi nel corso di tutta la loro vita scolastica, perché sono convinto che verrebbero fuori dei racconti sorprendenti. Mi rendo conto, d’altro canto, che realizzare un progetto del genere sarà sempre più difficile, perché il tema scolastico volge al tramonto, soppiantato ormai quasi definitivamente da test e quiz. A scuola ai ragazzi nessuno più insegna a scrivere un tema, perché nessuno più sarebbe disposto ad abbandonarli in un angolino in balia delle acque calme e piatte, eppur misteriose, di un foglio bianco. Ma non essere disposti ad abbandonare i ragazzi a scrivere il tema del loro destino non significa affatto prendersene cura con più amorevolezza.

 

In un saggio intitolato La società della stanchezza, il filosofo tedesco Byung-Chul Han spiega che nella «società della prestazione» nella quale viviamo, non esistono più estraneità o eccezioni. Tutto è stato assimilato e inglobato, tutto avviene all’interno (del mondo unico e globale, di noi stessi), perché fuori (dal mondo unico e globale, da noi stessi) non siamo più capaci di scorgere niente o forse veramente non accade più niente. Questa situazione di positività assoluta spinge l’uomo tardo-moderno alla convinzione di poter fare tutto, in tempi sempre più ristretti e veloci. «La positività del poter-fare è molto più efficace della negatività del dovere. Così, l’inconscio sociale passa dal dovere al poter-fare. Il soggetto di prestazione è più veloce e più produttivo del soggetto d’obbedienza», [2] che comunque potrebbe (poteva) dire ‘no’ e avrebbe (aveva) ancora dei margini per svincolarsi, seguendo la strada della propria eccezione. Le parole d’ordine del nostro mondo sono fatte di convergenze e intese più o meno larghe su tutto. Raramente incrociamo dei ‘no’ decisi e netti.

 

Dire ‘sì’ a tutto, però, non rende affatto più felici né risolve tutti i problemi. Se possiamo fare tutto, non vogliamo farci sfuggire niente, desideriamo fare tutto, ogni stimolo deve avere una risposta, ogni occasione va colta. Siamo oberati, come Prometeo, da una fatica immane, alla quale per lo più ci condanniamo da soli, sottoponendoci a stress variegati e infiniti. «È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca», [3] diceva Étienne de La Boétie. L’animal laborans, come definisce Byung-Chul Han l’uomo tardo-moderno, non ha nessuno in particolare al di sopra di sé che lo obblighi a impegnarsi così freneticamente, ma è egli stesso a costringersi a fare sempre più cose, rimanendo infine vittima di malattie del sistema nervoso gravi e complesse, dalla sindrome di burnout al disturbo borderline di personalità, dalla depressione al deficit di attenzione e iperattività (ADHD). «La tecnica del tempo e dell’attenzione definita multitasking non costituisce un progresso civilizzante. Il multitasking non è un’abilità di cui sarebbe capace soltanto l’uomo nella società del lavoro e dell’informazione tardomoderna. Si tratta, piuttosto, di un regresso. Il multitasking infatti si trova già largamente diffuso tra gli animali in natura. È una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio». [4] L’animale, mentre mangia, deve controllare i suoi cuccioli, deve difendersi dagli altri predatori e deve tenere sott’occhio il cibo affinché i compagni non glielo sottraggano.

 

È evidente che è umanamente impossibile riuscire a fare tutto il possibile, e allora ben presto si è invasi dalla disperazione e dall’esaurimento, dalla frustrazione e dalla noia. L’iperattività e l’iperattenzione finiranno per renderci solo più infelici e annoiati. È la noia il frutto dell’iperlavoro, la noia tardo-moderna dell’animal laborans che può fare tutto, ma non trova soddisfazione in niente. Forse uno dei primi a parlare di questa particolare e disperata condizione spirituale, con largo anticipo su tutti i pensatori novecenteschi, è il pastore errante di Leopardi: «O greggia mia…/ Se tu parlar sapessi, io chiederei:/ Dimmi: perché giacendo/ A bell’agio, ozioso,/ S’appaga ogni animale;/ Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?» [5]. La nostra società sembra avviata sulla china del ritorno allo stato di natura, con la differenza fondamentale che la noia che appartiene agli animali non sarà mai la sua stessa noia. La noia dell’animal laborans non ha nulla a che vedere con uno stato felice di abbandono e di riposo, e nemmeno con il taedium vitae, che potrebbe pur sempre costituire l’occasione per arrivare a concezioni liberatorie, bensì è il frutto amaro derivante dall’iperlavoro e dal conseguente stress. Altro che stoicismo o epicureismo! La noia dei lavoratori-consumatori prometeici non è la noia di chi, nello stato di natura, giace «a bell’agio, ozioso»: è piuttosto la noia – poco tragica e molto adolescenziale – di chi va alla ricerca frenetica di soddisfacimenti momentanei, di parole brevi, di orgasmi veloci. Perfino quando si reca in vacanza, l’uomo tardo moderno non è affatto vacante, ma pieno di impegni, occupatissimo a visitare musei, monumenti, luoghi speciali: fa il turista, e il turista, come l’uomo della folla, è un essere tetro e sperduto nel vuoto affollato del mondo. «L’appartenenza alla specie avrebbe potuto far conquistare all’animale che lavora per sé un abbandono animale. L’io tardo-moderno, invece, è completamente isolato», [6] chiosa Byung-Chul Han. Che cosa possiamo farcene, infatti, di uno stato di natura senza ozio?

 

Per confermare il suo discorso, Byung-Chul Han ricostruisce una folta tradizione di scrittori annoiati e salvifici, da Nietzsche ad Arendt a Handke, sviluppando una serie di considerazioni sulla contrapposizione tra la vita frenetica dell’animal laborans e la vita contemplativa di un uomo che probabilmente ancora non conosciamo, o del quale abbiamo perso la memoria. In particolare, trovo interessante un’immagine di Walter Benjamin, secondo il quale la noia è «un caldo panno grigio, rivestito all’interno di fodera di seta dai più smaglianti colori», nel quale «ci avvolgiamo quando sogniamo». [7] Se penso al rito dei temi celebrato a casa del professor Mirra dal mio amico Mario per imparare a vedere-pensare-scrivere, penso a qualcosa del genere: a una situazione prosaica e ordinaria, profondamente noiosa e grigia, ma proprio per questo anche onirica, foderata delle immagini che ghermiscono chiunque si trovi in uno stato di abbandono, più o meno costretto od obbligato. Soltanto nei sogni, o nei momenti di profonda concentrazione, quando pensiamo con intensità o ricordiamo il tempo perduto, l’attenzione, convergendo in un solo punto, rende la contemplazione del mondo limpida e felice, rilassata e pacifica. «Paul Cézanne, questo maestro dell’attenzione profonda, contemplativa», ricorda Byung-Chul Han, «ha osservato una volta che sarebbe stato in grado di vedere anche l’odore delle cose. La visualizzazione degli odori richiede un’attenzione profonda. Nello stato contemplativo ci si ritrae, per così dire, fuori di sé e ci si immerge nelle cose. Merleau-Ponty descrive la visione contemplativa del paesaggio presente in Cézanne come un’alienazione o una de-interiorizzazione» [8].

 

Il saggio di Byung-Chul Han si conclude, mutuando definizioni e immagini da un famoso testo di Peter Handke, con un elogio della stanchezza, condizione necessaria ed esemplare di tutti gli stati contemplativi. Questo mi riporta alla mente certi ragazzini di una scuola media di Sant’Antonio Abate, in provincia di Napoli, che scrivevano i loro temi dopo aver giocato a pallone nell’ora di ricreazione, estenuati fisicamente, ma del tutto rilassati, liberi da ogni assillo o stress, quasi dormendo sui fogli, sui quali però tracciavano di tanto in tanto, miracolosamente, parole che io poi trovavo di una profondità e verità rare. [9] Chi scrive un tema si ritrae fuori di sé, nei sogni ricordi fantasie che galleggiano ondeggiando nell’aria e nel paesaggio come le figure in certe pitture medievali, e, guarendo le nostre nevrosi, ci invogliano a superare noi stessi.

 

Quando nel 2007 sono passato a insegnare al liceo, nelle scuole di ogni ordine e grado cominciavano ad affacciarsi, con una certa insistenza, non solo come pratiche valutative ma anche formative, i test sponsorizzati dall’Invalsi (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione). Ormai questi test – che costituiscono la quintessenza di tutti gli approcci di tipo analitico alla scrittura e al sapere in generale – si somministrano a cominciare dalle scuole elementari, e fin dalla più tenera età si insegna a ragionare secondo la ‘logica delle crocette’, del tutto estranea al vedere-pensare-scrivere di Nietzsche. Il mio amico Mario ha tre figli che non sono troppo bravi in italiano, e ogni tanto mi chiede se posso fare qualcosa per loro. Il fatto è che io non sono il professor Mirra, e mi sento sempre alquanto imbarazzato e impotente al cospetto di richieste d’aiuto del genere, perché davvero non capisco come si possa ‘insegnare a scrivere’ nell’epoca dei test Invalsi. Oggi leggere e scrivere sono attività regolate su abilità e competenze del tutto estranee al mondo nel quale io e Mario siamo stati educati. Forse non a caso, ogni anno che a scuola arriva il giorno fatidico della prova nazionale curata dall’Invalsi, mi prende una grande nostalgia dei temi di tanti anni fa (anche se qui, è ovvio, non sto facendo un discorso nostalgico). Si vede subito che gli studenti allineati e sorvegliati nei banchi non saranno mai assorti e abbandonati al proprio destino e ai propri sogni alla maniera del mio amico Mario o dei ragazzini di Sant’Antonio Abate. L’imperativo sotteso ai test Invalsi è rimanere svegli e vigili, stare allerta e ricavare il massimo profitto (una crocetta in più) da qualsiasi attività. Bisogna far sì che tutti capiscano le stesse cose allo stesso modo: l’ideologia di queste prove è tutta qui, perfettamente aderente all’ideologia dominante e alla ‘dittatura della maggioranza’ e della mediocrità. In questo modo, si sopprimono definitivamente non solo il libero pensiero, ma anche la letteratura e la lettura intese come peculiari momenti formativi nella vita di un individuo. L’Invalsi opera un impietoso lavaggio a secco di racconti poesie romanzi, privandoli della loro qualità più importante – quella formativa appunto – ed esponendoli come occasioni del tutto anodine per l’esercizio di una logica analitica e coercitiva. Le ‘capacità di lettura’ consistono nel tenere gli occhi sbarrati e la sensibilità allertata su tutti i più reconditi passaggi di un testo qualsiasi, cacciando via ogni partecipazione affettiva e la minima interpretazione frutto dei viaggi e degli zig-zag mentali dell’esperienza. (Dialogo clandestino tra liceali durante il test Invalsi 2013: «La parola muscolo viene da mus: è una metafora o una metonimia?» – «Secondo me, potrebbe essere un’analogia, intendendo quest’ultima come la matrice di entrambe, metafora e metonimia, e poi…» – «Ma no! Devi solo mettere la crocetta sull’una o sull’altra!»).

 

La lettura, nella concezione degli ideatori dell’Invalsi (e dei loro colleghi europei e americani), non è più un’esperienza, men che meno un’esperienza che coinvolge il lettore, ridotto a ‘correttore’ viepiù neutro. La via segnata da questi test è diritta e infinita come un’autostrada senza svincoli: andare andare andare, senza mai fermarsi, senza rifiatare. E sempre in affanno (si contano i minuti); sempre in allerta (attento a quella virgola); sempre con la frustrazione di non aver capito quello che ti ordinano di capire (le ‘crocette’ esattamente come minuscole stazioni di una via crucis). Come si fa a non odiare la lettura e la letteratura dopo aver trascorso la vita sui test Invalsi? Tutto il succo dei testi spremuto via, solo scorze rinsecchite, da mettersi in tasca e da spendere alla prima occasione di precario lavoro da schiavo. E un’altra cosa che mi colpisce, durante l’esecuzione dei test Invalsi, è la qualità del silenzio che aleggia nelle aule e la tensione dei corpi: un silenzio fatto di tensione, non un silenzio rilassato come quello che si percepisce durante lo svolgimento dei temi, quando i ragazzi spesso si sbracano scompostamente, si rilassano appoggiando una gamba sulla sedia del compagno seduto davanti, si distendono sul banco con la penna in bocca, si perdono con lo sguardo su un punto qualsiasi della lavagna, e l’armonia è una questione collettiva, più importante di qualsiasi performance individuale. Chi scrive un tema, sta insieme agli altri – compagni e maestro reali o immaginari – e contempla il mondo avvolto da un panno grigio foderato di seta colorata, come dice Benjamin. Chi compila i test Invalsi, sa di essere solo e sperduto e che non deve sbagliare, come un soldato allineato in fila, muto e ubbidiente.

 

I luoghi infelici che sono le aule scolastiche tardo-moderne sono tali soprattutto perché insegniamo ai nostri figli fin da piccoli l’iperattenzione e l’iperattività. La noia contemplativa, di cui parla Merlau-Ponty a proposito di Cézanne, e che caratterizza lo scrittore di temi, non ha più nulla a che vedere con il metodo di insegnamento della scrittura vigente nelle scuole odierne. La noia è sparita, e qualsiasi contemplazione è stata bandita. L’ansia da prestazione è dominante, rispetto al sentimento di abbandono suscitato dalle parole stranianti della traccia di un tema. Lo strumento del test è innanzitutto un grande strumento di livellamento verso il punto medio dove tutto si equivale: l’Eguale, come lo definisce Byung-Chul Han, nei test Invalsi trova una delle sue più chiare manifestazioni. Non si danno più casi particolari, e la perfezione del genere umano sarà raggiunta quando tutti i test risulteranno uguali, cioè eseguiti correttamente. Ma se qualcuno mi chiedesse se i test (Invalsi e non solo) possono essere annoverati tra le pratiche umane che hanno contribuito e contribuiscono all’elevazione di sé, lo escluderei subito, per i seguenti tre motivi: perché non ammettono perfezionamento, estro o acrobazie; perché non liberano dalle paure; perché la forma di chi li esegue non può andare verso alcun miglioramento, ma solo verso l’esecuzione corretta, peraltro già universalmente scritta e prescritta da qualcun altro.

 

Ho detto che a scuola nessuno più insegna a scrivere ai ragazzi. Credo sia evidente, a questo punto, in che senso. Non nel senso della correttezza ‘formale e contenutistica’, bensì proprio nel senso del ‘fare un tema’, intendendo quest’ultimo come un’antropotecnica per imparare a vedere-pensare-scrivere, che si apprendeva nelle botteghe di una volta tipo le aule scolastiche felici o le case di certi professori di paese, e, come la tappa di un rito di passaggio, non aveva altra funzione che invogliare i giovani a dare forma alla loro vita. «Ogni forma è lenta. Ogni forma è una deviazione. L’economia dell’efficienza e dell’accelerazione la porta alla scomparsa» [10]. Dare forma è una questione centrale per una buona esecuzione di un tema perché fondamentale è deviare nella direzione giusta del proprio destino e della propria eccezione. E qui bisogna citare l’altra faccia dei test Invalsi, ovverosia le scuole di ‘scrittura creativa’, che veicolano un’idea tecnicistica e astratta della scrittura, precisamente opposta al dare forma di cui sopra, ma in sintonia insospettata con i test Invalsi. I rassicuranti docenti di ‘scrittura creativa’, armati di arzigogolati progetti, spesso finanziati dalle sempre più sbandate scuole pubbliche e private, riducendo la questione formale a un fatto tecnico, sanciscono la definitiva mortificazione dello spirito contemplativo e deviante, standardizzando e serializzando i processi di elaborazione linguistica. È scontato che gli esperti di ‘scrittura creativa’ non sarebbero mai capaci di scrivere un tema, in cui il punto di partenza e la misura di tutto non è una scialba e sterile sapienza tecnica d’importazione, ma la propria ignoranza, che lungi dall’essere un ostacolo al rinvenimento di una forma, ne costituisce l’ineludibile elemento di forza e di visione: «L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo», diceva Giambattista Vico. [11] Il ‘metodo Mirra’ e il metodo delle scuole di ‘scrittura creativa’ sono agli antipodi, separati da un abisso, come quello che separa povertà e ricchezza, o contemplazione e stress. Il ‘metodo Mirra’ è rivolto all’individuo che ‘fa sé regola dell’universo’; il metodo Invalsi e quello delle scuole di ‘scrittura creativa’ si rivolgono invece all’uomo della folla, che fa il conformismo di massa regola dell’universo. Capita così che nella ‘società della prestazione’, già affannata e stressata, sempre più gente si sobbarchi, oltre alle innumerevoli occupazioni quotidiane, anche l’impegno di andare a seguire il corso di ‘scrittura creativa’ per ‘imparare a narrare’, come recita ad esempio la pubblicità della Scuola Holden. Al contrario, chi scrive un tema, innanzitutto lo scrive perché deve scriverlo, per cui potrebbe, se lo preferisse, farne a meno, sapendo che anche così ‘avrebbe narrato la sua storia’; e poi, impara ad affrontare con sicurezza tutto ciò che si trova sperduto e non identificabile all’esterno, forse proprio perché è obbligato ad affidarsi con coraggio alla navigazione in mare aperto e alla volta do mar della propria ignoranza. [12]

 

È fuor di dubbio che il mondo in cui si eseguono i test Invalsi non è più il mondo in cui si svolgevano i temi. Quest’ultimo era un mondo in perenne gestazione, il primo presume di esser già perfettamente compiuto, senza più nulla da scoprire. Ma se, come annota in maniera illuminante Byung-Chul Han, «l’eccessivo aumento delle prestazioni porta all’infarto dell’anima», forse faremmo bene ad attingere ancora alla sapienza riposta nell’antropotecnica dialogica del tema scolastico. I temi sono una buona occasione per tornare ad allenarsi con gli dèi, e potrebbero essere d’aiuto perfino nella cura delle malattie nevrasteniche nella ‘società della prestazione’. Nelle scuole del futuro, che, secondo alcune ipotesi, dovrebbero superare l’impostazione contenutistica e disciplinare per diventare vere e proprie palestre dell’intelligenza, dove ci si eserciti innanzitutto a diventare se stessi; in queste scuole, dunque, né test Invalsi, né corsi di scrittura creativa, ma temi, sempre e soltanto prosaici temi, svolti magari sotto la guida di un maestro (allenatore) discreto. Invece che l’intensificazione degli stimoli, l’acutizzazione dell’attenzione e l’accanimento terapeutico, l’abbandono ai meccanismi e alla ritualità più ‘calma’ di una scrittura vaga e che cerca da sé la propria forma, il proprio essere in forma. «Per mancanza di calma», scriveva Nietzsche, «la nostra civiltà sbocca in una nuova barbarie. In nessun’epoca si attribuì maggior valore agli attivi, cioè ai senza riposo. È dunque una delle necessarie correzioni che si devono apportare al carattere dell’umanità quella di rafforzare in larga misura l’elemento contemplativo». [13] Se non vogliamo allevare nevrotici e isteriche, riducendo il mondo a una clinica per malattie mentali dove la normalità sarà la malattia stessa, altra strada non c’è: dobbiamo trovare gli strumenti giusti che ci aiutino a essere in forma, che ci abituino a una ricerca della forma che duri per tutta la vita.

 

Nessun picco vertiginoso, nessun talento genuino, nessuna intuizione fondata riescono più a mettere in dubbio l’esistente. Il talento non formattabile è castigato, l’intuizione che apre nuovi varchi è mortificata in favore dell’analisi sterile e dell’acribia… Devo confessare che sempre più spesso, per superare qualcuna delle tristezze che – mi rendo conto – devo aver fatto trapelare anche da questo scritto, senza far circolare troppo la notizia tra i colleghi, un po’ di contrabbando e un po’ di soppiatto, continuo ad assegnare temi ai miei studenti liceali. «Quest’anno hai incontrato per la prima volta la filosofia. A che cosa serve, secondo te, questa disciplina? Può essere davvero utile nella vita, oppure, come la letteratura e il latino, serve soltanto ai professori per guadagnarsi da vivere?». Per confezionare una buona traccia non c’è bisogno di grandi circonvoluzioni. Anzi, quanto più si rimane ancorati a una certa ordinarietà, condita giusto con un pizzico di sapienza, tanto migliori saranno gli elaborati. Non bisogna ottundere il pensiero con ipotesi o concetti elaborati, bensì disporlo ad aprirsi con fiducia sul mondo. E per far questo, basta un piccolo stimolo, un tocco, un minimo segnale che risvegli l’immaginazione. «Descrivi la società perfetta »; oppure: «La narratologia, che hai studiato l’anno scorso e ripreso quest’anno, secondo te, aiuta a comprendere davvero il fine ultimo di un testo letterario?»; oppure: «Commenta questa affermazione di Pierre de Coubertin, tratta dalle sue Memorie olimpiche: “Musica e sport per me sono stati sempre i migliori ‘isolatori’, i più fecondi strumenti per raccogliersi e meditare, come pure possenti incitatori alla perseveranza e, per così dire, ‘messaggi della volontà”»; o ancora: «Sorge il sospetto che la scuola, a volte, si regga sull’ipocrisia. Ad esempio, i recenti atti vandalici verificatisi nel nostro Liceo (infestazione da creolina), a tuo parere, hanno reso felici o infelici gli studenti?». Si potrebbe anche pensare a programmare un percorso espressivo, con scale di intensità degli argomenti, a partire dall’inizio di un ciclo di studi fino alla cosiddetta maturità, magari nell’ottica della vita scritta nei temi come per capitoli di un romanzo di formazione.

 

In ogni caso, al di là di qualsiasi nostalgia, continuare ad assegnare temi (e a svolgerne anch’io, per me stesso, come in fondo hanno fatto tanti scrittori, tra i quali voglio ricordare qui Umberto Pavia) fa parte del mio personale modo di resistere alle strategie invalidanti e anacronistiche dell’Invalsi – strategie buone per preparare orde di schiavi adatti soltanto a individuare prevedibili ‘crocette’, non gente che pensa, come si diceva una volta, ‘criticamente’. Perché poi, a dirla tutta, il proliferare dei test non significa affatto che il ‘pensiero critico’ va scomparendo. Semplicemente si è ritirato (lo hanno ritirato) dalla scuola pubblica, mentre è risaputo che continua a serpeggiare in costosissimi ed elitari istituti, dove non solo la musica, la letteratura, il latino continuano a essere insegnati, ma questioni e modalità di pensiero del genere di quelle che provo a porre io con il mio metodo di contrabbando, sono tutt’altro che trascurate. C’è qualcuno che vorrebbe il mondo futuro composto, da una parte, da masse di ‘invalidati mentali’ senza altra abilità che quella di eseguire i più prevedibili e ottusi compiti, e dall’altra da un’élite sempre più ristretta di gente che sa fin troppo bene quello che fa e che vuole. Io, ricordandomi del professor Mirra, assegno temi per portare avanti una tradizione che è l’unica che capisco e accolgo, che consente a tutti, con poco, lo sviluppo di capacità di pensiero autonome e agevola la resistenza agli stress nervosi nella ‘società della prestazione’, aiutando così a raggiungere con naturalezza la forma migliore.

 

A volte, la conferma a queste mie idee mi illudo di trovarla nelle classi in cui, appena ho completato la dettatura della traccia di un tema, scorgo i volti rilassati e ben disposti a mettersi a scrivere dei miei studenti, i quali, avendo scansato per l’ennesima volta la famigerata ‘analisi del testo’, si apprestano a contemplare e ricreare il mondo dal loro angolino sperduto. E ripenso alle parole che pronunciò Eraclito quando lo trovarono che si riscaldava vicino a un forno: «Anche qui sono presenti gli dèi». [14]

 

NOTE

 

1 – Cfr. Sloterdijk 2010.

2 – Byung-Chul Han 2012, p. 14.

3 – de La Boétie 2011, p. 10.

4 – Byung-Chul Han 2012, p. 17.

5 – Leopardi 1987, p. 87.

6 – Byung-Chul Han 2012, p. 23.

7 – Byung-Chul Han 2012, p. 18.

8 – Byung-Chul Han 2012, p. 20.

9 – Cfr. De Vivo 1999, in particolare la prefazione di Gianni Celati, il quale si sofferma anche sugli aspetti che stanno “intorno” alla scrittura dei ragazzini.

10 – Byung-Chul Han 2012, p. 37.

11 – Vico 1998, p. 173.

12 – Cfr. Sloterdijk 2004, pp. 59-61.

13 – Byung-Chul Han 2012, p. 20.

14 – Heidegger 1995, p. 91.

 

BIBLIOGRAFIA

 

de La Boétie 2011

Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, Milano 2011

 

De Vivo 1999

Enrico De Vivo (a cura), Racconti impensati di ragazzini, Feltrinelli, Milano 1999

 

Byung-Chul Han 2012

Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2012

 

Heidegger 1995

Martin Heidegger, Lettera sull’«Umanismo», Adelphi, Milano 1995

 

Leopardi

Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Poesie e prose I, Mondadori, Milano 1987

 

Sloterdijk 2010

Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, Milano 2010

 

Sloterdijk  2004

Peter Sloterdijk, Non siamo stati ancora salvati, Bompiani, Milano 2004

 

Vico 1998

Giambattista Vico, La scienza nuova, Rizzoli, Milano 1998

 

*

 

Questo intervento è tratto dal volume collettivo Avventure da non credere. Romanzo e formazione, a cura di Walter Nardon, uscito nel novembre 2013 presso la casa Editrice Università degli Studi di Trento. Il volume raccoglie i contributi di Eraldo Affinati, Gianni Celati, Alessandro Raveggi, Walter Nardon, Massimo Rizzante, Pia Petersen, Alessandro Gazzoli, Giancarlo Alfano, Helena Janeczeck, Michele Mari, Enrico De Vivo per il Seminario Internazionale sul Romanzo. Per informazioni: Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Filologici, Via S. Croce, 65 – 38100 TRENTO – Tel.: 0461 881777 – 881722 – Fax: 0461 881751 – e-mail: editoria@lett.unitn.it.