Tommaso Labranca e il destino degli oggetti

Quando la produzione industriale degli oggetti domestici ha assunto dimensioni di massa è emerso infatti il bisogno di qualcosa in più, di una dimensione simbolica e trascendente dell’oggetto, il Paradiso terrestre a cui l’acquisto di quel particolare prodotto ci avrebbe aperto le porte, rendendo definitiva la nostra identificazione mediante il possesso. La pubblicità in fondo è servita a costruire questo Aldilà degli oggetti.

Bisogna prenderla un po’ alla lontana. La produzione in serie degli oggetti domestici, che si è affermata in Italia a partire dal Secondo Dopoguerra, ha cambiato in primo luogo loro, gli oggetti, sottraendone in parte la singolarità (il prodotto artigianale si mostrava più apertamente come “pezzo unico”), poi ha mutato il nostro rapporto con gli oggetti, rendendo meno immediata la relazione tra materia e memoria: la sedia a dondolo, il vaso di porcellana del primo Novecento sembravano infatti più qualificati a riportare in vita il passato, innescando pienamente la memoria, rispetto a un mestolo di plastica arancione. I nuovi oggetti avevano una forma nota, ma una materia sconosciuta.

Il design industriale ha cercato di riscattare in parte la perdita dell’aura del manufatto artigianale riconfigurando il rapporto tra forma e funzione: ne sono nati tanti oggetti memorabili, ma non è bastato. Quando la produzione industriale degli oggetti domestici ha assunto dimensioni di massa è emerso infatti il bisogno di qualcosa in più, di una dimensione simbolica e trascendente dell’oggetto, il Paradiso terrestre a cui l’acquisto di quel particolare prodotto ci avrebbe aperto le porte, rendendo definitiva la nostra identificazione mediante il possesso. La pubblicità in fondo è servita a costruire questo Aldilà degli oggetti, dalla più ingenua dei manifesti degli anni Cinquanta, ancora centrata sulle qualità materiali, a quella televisiva degli anni Novanta, completamente smaterializzata, nella quale ormai contava solo la dimensione immaginaria. Nel descrivere il fenomeno, un aspetto che passa per lo più in secondo piano, è che a questo mondo illusorio sono legati molti ricordi dei nati fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del Novecento. Un mondo in realtà estremamente stratificato che l’ironia cruenta di Superwoobinda di Aldo Nove non è riuscita a chiarire.

Il libro di Claudio Giunta Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca, si sviluppa sull’intreccio di due temi: uno è il destino degli oggetti pop, l’altro è invece quello di un uomo che se ne è occupato per tutta la vita, Labranca appunto, morto prematuramente il 29 agosto 2016 a cinquantaquattro anni.

Ma non si tratta solo di oggetti: ci arriverò in un attimo. Non tutti i prodotti di serie potevano essere riscattati dal design: non erano molte le imprese che potevano investirvi in misura concreta. Così i produttori di beni di massa a basso costo potevano soltanto imitare da lontano gli oggetti di maggior qualità estetica, esibendo la distanza che li allontanava da loro. Quando invece guardavano a prodotti di minor pregio, riuscivano soltanto ad alludere all’immaginario di una particolare pubblicità, più che ad attingervi davvero. Se il nostro rapporto con gli oggetti domestici è cambiato in misura decisiva, altrettanto è accaduto per i prodotti immateriali, specie quelli della cultura pop, come Labranca ha ben chiarito. Ad esempio la musica. Il cantante di balera imitava Little Tony, o Bobby Solo, che a loro volta imitavano Elvis Presley. Certo, anche in precedenza l’imitazione era un processo inevitabile, ma ora la conoscenza del cantante imitato non era evidente solo alle persone del settore: i mezzi di comunicazione di massa avevano reso noto Elvis a livello mondiale. Questo processo, tanto importante per il nostro paese, Labranca l’ha chiamato trash: l’«emulazione fallita», l’esibizione approssimativa e lontana dall’originale, quello che le nonne, osservando le più temerarie e meno dotate fra le loro coetanee, tanto tempo prima dei post qualificavano con: «Vorrei ma non posso». In sintesi una forma di bovarismo a basso costo, meno rischiosa e meno tragica di quella di Emma Rouault. La storia dell’«omologazione» (e del «genocidio culturale») di cui parlava Pasolini, che Giunta riprende puntualmente, passa anche da questa via.

Ma la questione della nostra subalternità nella cultura pop internazionale è tanto complessa da meritare un discorso che qui può essere solo accennato e che in questi anni ha trovato una trattazione storica, ossia quello delle traduzioni in italiano delle canzoni americane e inglesi. Se si può discutere del testo di La risposta è caduta nel vento,traduzione di Mogol di Blowin’ in the wind di Dylan (che fu cantata da Tenco), pensare alla fine che ha fatto la scabrosa Walk on the wild side di Lou Reed (1972), ossia I giardini di Kensington (1973) cantata da Patty Pravo può dare un’idea della distanza. Non oso immaginare la discussione che oggi l’operazione susciterebbe. In effetti, quando Vasco Rossi nel 2009 ha rifatto con Ad ogni costo l’epocale e più padroneggiabile Creep dei Radiohead ha provocato in rete una selva di proteste, non tutte, per così dire, per lesa maestà. Un altro dettaglio: se Guccini ha avuto qualche problema nel 1968 con Dio è morto (nonostante l’esito finale «che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge»), pensare che si potesse mettere in onda in italiano qualcosa come Masters of war di Dylan (1963), in cui la voce narrante augura ai signori della guerra di morire, costringe a uno sforzo di immaginazione anche maggiore. La distanza, si diceva. Negli anni Ottanta, per la precisione nel 1984, come Labranca e poi Giunta sottolineano, nelle classifiche di vendita le canzoni in italiano sarebbero quasi scomparse di fronte a quelle in inglese (una su dieci). Come già per i «consumi irrazionali delle figlie dei braccianti» a cui Giunta dedica un paragrafo incisivo, verrebbe da dire: da qualche parte si doveva pur cominciare.

2.

Cresciuto a Pantigliate, nella periferia milanese, figlio di una famiglia umile, Tommaso Labranca ha fatto del mondo degli oggetti pop il suo orizzonte di saggista e di critico con qualche prova più dichiaratamente narrativa, come il romanzo Haiducii. Dotato di una formazione non tradizionale sbilanciata sulle lingue straniere e di un formidabile intuito da autodidatta, Labranca accumula un’enorme competenza in fatto di oggetti e di segni pop, ma la affida a espressioni dispersive (le fanzine, e poi le riviste create e scritte interamente da lui) a tanti impegni “alimentari” e a libri intelligenti con titoli al limite dell’autosabotaggio: Andy Warhol era un coatto, Estasi del pecoreccio, Chaltron Hescon. Labranca lavora incessantemente, traduce dal tedesco e dall’inglese, scrive testi per varie trasmissioni, entra in radio e riesce a raggiungere la prima serata televisiva come autore di uno dei maggiori successi RAI degli anni Novanta: Anima mia di Fabio Fazio e Claudio Baglioni (a cui seguirà LUltimo valzer, di minore impatto). Nel primo show lo si ricorda presente in studio vestito con una punta di eccentricità, nevrotico, ossessivamente preciso mentre mostra e descrive rarità degli anni Settanta (potenzialmente fluviale, ma saggiamente trattenuto, in una funzione perentoria e simile a quella del notaio dei quiz televisivi). Ma la cosa purtroppo non dura. Nella seconda parte di questa sua indagine Giunta è efficace nell’illuminare il carattere enigmatico di Labranca, da una parte teso verso un’ideale purezza intransigente, dall’altro pronto alla promozione di sé a danno degli amici, generoso e malevolo, vittima dell’invidia, anche meschino: «il successo degli altri lo rattristava». Fra i due poli, la tensione logora i rapporti umani, che sopravvivono a fatica. È difficile non condividere il ricordo di Tiziano Scarpa che per lui si era speso in ambito editoriale (e che poi è stato attaccato da Labranca in modo velenoso e impreciso): «La verità è che ha avuto molte più occasioni di quelle che hanno avuto altri scrittori della sua generazione, e che le ha buttate via quasi tutte».

Dopo aver rifiutato di lavorare come autore a Che tempo che fa, Labranca precipita in collaborazioni sempre più occasionali. Scrive poi per Cronaca vera. Non solo non sembra saper capitalizzare la breve stagione di notorietà, ma nonostante l’intelligenza e una capacità lavorativa fuori del comune non riesce a trovare in sé la pazienza necessaria per cogliere un risultato, al quale dà l’impressione di arrivare quasi accidentalmente.

L’indagine personale di Giunta è così persuasiva che si è tentati di parlare solo delle cose che discute, senza accorgersi della mano che le scrive. In questo modo di procedere emerge in controluce un’affinità tra l’autore e il protagonista, del resto dichiarata: un’insofferenza per l’imprecisione, ovunque questa si annidi, e un’idiosincrasia ancora più viva per il «pregiudizio scolastico», ossia l’atteggiamento che porta a valutare bene solo ciò che la scuola ha riconosciuto importante e degno di lode, un ostacolo formidabile all’espressione personale. Ma allo stesso tempo, naturalmente, si rivela anche la distanza tra il quadro e il suo modello, il punto di osservazione di Giunta, professore universitario con lo stipendio garantito, come confessa lui stesso, rispetto a chi si trova invece a rincorrere innumerevoli incarichi per lo più sottopagati in un contesto cambiato troppo rapidamente, dove l’estrema competenza labranchiana nelle parole di Gianni Biondillo può essere sostituita da una semplice ricerca in Google (in parte, si intende: ma chi è più disposto a pagare per la differenza?).

E così anche gli sviluppi delle intuizioni teoriche di Neoproletariato e le incursioni nella periferia urbana raccontate nel Piccolo isolazionista, che Giunta ritiene il miglior risultato letterario di Labranca, vengono destinate progressivamente a pubblicazioni sempre più introvabili, fino all’autopubblicazione degli ultimi libri, come Progetto Elvira, dedicato a uno studio decostruttivo del Vedovo di Dino Risi, o Vraghinaroda, sul mondo dell’arte contemporanea. Dopo aver litigato quasi con tutti, Labranca resta a ideare i suoi progetti con il compagno e collaboratore Luca Rossi, e grazie al supporto di due mecenati di Lugano, Milo e Julia Miler. Abbandonato, spesso motivatamente, dagli amici e anche da molti che gli stavano intorno, Labranca diminuisce sempre più il suo raggio di azione, circondato da poche amicizie (una è quella di Orietta Berti), fino alla morte improvvisa e non del tutto chiarita.

Sarebbe troppo facile concludere che questa è la sorte di chi oggi in Italia dispone solo dell’intelligenza, perché rimangono aperti alcuni interrogativi non secondari. Si è trattato davvero di una traiettoria inevitabile? La coerenza nell’indisporre chiunque – anche se Giunta ricorda che Labranca talvolta poteva prodursi in grandi gesti di generosità – era davvero necessaria o non era in qualche misura anche una posa, come ha scritto un altro amico? Corteggiare tanto a lungo il fallimento non somigliava forse a una forma autolesionistica di vendetta per il mancato idillio?

3.

Più che un saggio su un autore e la sua opera il libro costituisce un esempio di microstoria contemporanea, una microstoria della cultura: apre la strada a un genere e in questo senso racchiude in sé più di una tendenza già presente in alcuni dei saggi più brillanti degli ultimi anni.

Con il libro sul Vedovo Labranca ha impiegato i film di Dino Risi come pretesto letterario, un fenomeno oggi corrente, dove queste pellicole vengono interpretate come una raccolta di tipi umani a cui attingere disponendoli poi in fila come documenti per analizzare un aspetto del costume d’epoca (mentre il film dalle riprese più complesse – dal personaggio meno piatto e dallo sguardo più consapevole – viene evitato, al punto che Labranca riesce perfino a rimpiangere in modo platealmente discutibile che non sia stato Risi a dirigere La dolce vita: certo, gli avrebbe semplificato il lavoro). Del resto, come diceva Kubrick, quando ci si esprime in proprio è meglio partire da qualcosa che non sia un capolavoro: lo si può sempre migliorare (della sceneggiatura che lo stesso Nabokov trasse da Lolita, fece infatti l’uso che gli sembrò più opportuno, ignorandola quando necessario).

Giunta si mostra sempre lucido, ineccepibilmente sorvegliato nel dar forma a un ritratto in primo luogo intellettuale, anche se gli affetti non mancano. Io avrei voluto saperne di più del quotidiano di Labranca: capire come si svegliava, come alzava il braccio per chiamare il cameriere (se lo alzava), o come reagiva ai contrattempi dei trasporti, ma sarebbe stato un altro racconto e il fatto che il libro abbia suscitato queste domande ne conferma comunque un merito. Gli amici hanno ricordato la straordinaria gentilezza di Labranca con chi non lo conosceva.

Un paio di osservazioni. Parlando della redazione delle fanzine di fine anni Ottanta e dei linguaggi di programmazione a cui i creativi di allora, in relazione a queste, si dedicavano, Giunta cita il Cobol, in realtà un linguaggio più adatto alla gestione di basi di dati e alla produzione delle scritture d’esercizio delle aziende (quante istruzioni dichiarative, prima di arrivare alla Procedure Division). Giunta sostiene poi che «l’insuccesso, se lo si accetta, migliora il carattere», un’affermazione impegnativa che sembra derivata da uno dei grandi interrogativi della storia della filosofia morale, ossia se il dolore sia pedagogico, questione a sua volta dipendente dalla presunta capacità razionale, o di intuizione, di riconoscere il bene. Personalmente mi sento incline a una maggior prudenza, anche se capisco che la moltitudine scolarizzata con «una stima di sé del tutto sproporzionata rispetto ai propri meriti reali» che Labranca incontrava ogni giorno (e che ora forse è Giunta a incontrare) possa essere d’ostacolo alla valutazione del problema.

Un commento su “Tommaso Labranca e il destino degli oggetti

  1. Enza

    Leggendo questa recensione mi è venuta in mente una lirica di Caproni : Cabaletta dello stregone benevolo. Ho sentito che Labranca non era della tribù e che aveva sbagliato foresta.