Presiden arsitek/ 19

(Lei ora taceva, fissandolo, le pareti della stanza elettrificate dalla sua rabbia, e senza un motivo apparente il plasma del televisore alle sue spalle si mise a crepitare e l’apparecchio si sintonizzò sullo spot di un nuovo software, insinuando il suo borbottio nella lite).

di in: Presiden arsitek

-Che cazzo fai.

-Eh?

-Che cazzo fai.

-Cosa sto facendo.

-Puoi venire un attimo scusa.

-Cosa c’è.

-Vieni.

-Dimmi cosa c’è.

-Vieni, non te lo dico davanti a tutti.

-Qui non c’è nessuno.

-Non te lo dico davanti a tutti.

(L’orizzonte della spiaggia, grigio e verde scuro, l’unica luce naturale una striscia bianca sul bordo del mare, tenue e sempre più debole ma ancora capace di neutralizzare i led che decoravano la costruzione.)

-Io non ho fatto niente.

-Stronzo.

(Nell’ascensore c’era una moquette viola e verde sempre perfettamente pulita, una fantasia vegetale che lo spaventava. La notte sognava batuffoli di polvere come polline preistorico impregnare quella moquette diventata nel sonno due volte più profonda. Una fantasia vegetale che lo spaventava.)

-Che cazzo ridi, che cazzo c’è da ridere.

-Non sto ridendo.

-Ti fa ridere, quando mi tratti così, come una merda completa, nel giorno del mio compleanno? Ti fa ridere?

(Non si sentivano i loro passi, mentre lui la seguiva verso la camera, i gesti e i rumori (la tessera nella fessura, il led che diventa verde, la porta bianca che cede) tornavano ad essere minacciosi e privi di senso come il primo giorno che era arrivato lì, come se tutto l’hotel fosse parte di una congiura per abolire gli individui. Dentro la camera lei alzò la voce.)

-Non sto ridendo. Ti giuro che non so––

(Lei ora taceva, fissandolo, le pareti della stanza elettrificate dalla sua rabbia, e senza un motivo apparente il plasma del televisore alle sue spalle si mise a crepitare e l’apparecchio si sintonizzò sullo spot di un nuovo software, insinuando il suo borbottio nella lite.)

-Non lo so.

-Chi ti credi di essere. Sei solo uno stronzo. E tutta la sera a parlare con lei. Che schifo. Chi cazzo ti credi di essere, Se te la vuoi scopare fai pure sai, la conosco, a lei piacciono quelle cose. Ma il giorno del mio compleanno. Ve la potete scopare in due se volete. Che schifo. Mi fai schifo.

-…Pithia: un software derivato dai programmi utilizzati per le previsioni del tempo, nel quale una serie di variabili statistiche permetteranno al cliente di prevedere le proprie reazioni, e parliamo naturalmente di reazioni sulla lunga distanza, quelle più difficili da prevedere––

-Non ci credo. Davvero hai pensato––

-Guarda che non sono idiota.

-E invece lo devi essere per aver paura di una cosa del genere.

-Grazie. Grazie tante.

-…vi è mai capitato di dirvi «se solo non avessi preso quel treno / parlato a quell’uomo, a quella donna / detto quella o questa cosa / fatto così o cosà», eccetera eccetera eccetera? Da oggi, grazie al calcolo derivato dalle matrici usate per le previsioni del tempo bretoni – tra le previsioni più ardue al mondo, tanto che tra i matematici bretoni meteorologici – ma stiamo divagando…

-Ma potrebbe essere mia madre. No. Mia nonna.

-Grazie per avermi dato dell’––

(Deglutì la parola, come in un’estasi automartirizzante.)

-Che giornata di merda. Che giornata di merda. La mia fest––

-…reazioni a determinati schemi comportamentali proposti dal cliente stesso. Errori irreparabili, addio! Bye bye destino infausto! Pithia vi ferma prima che commettiate quello che i parametri scelti da voi descrivono come uno sbaglio esistenziale: e così vi fermate in tempo, e alla vostra esistenza non accadrà nulla: mai.

-Scusa––

-La mia festa…

-Scusa, ma potrebbe essere mia nonna. Come fai a pensare che io––

-Ecco. Lo vedi che schifo che fai. Ci provi tutta la sera poi vieni a dirmi queste cose. A me, che sono sua amica. Ma tanto sono una povera–– che festa…

(La vecchia gli aveva stretto il polso tra due dita come una zampina di lucertola, il bisbiglio della sua voce come uno spiffero dal colore di fango dei suoi occhi, la minuscola punta della lingua a sfiorare scherzosamente il liquore di un cioccolatino spaccato. Il tempo insieme non doveva essere un silenzioso e lento massacro?)

-Ma che cazzo…

-…di merda.

-…dici.

(Da fuori una sirena di nave, un tono però troppo acuto, più da sonar di un sottomarino, ovvero naturalmente quello che si potrebbe immaginare essere il suono del sonar di un sottomarino e che noi ci siamo limitati a sentire in innumerevoli film sui sottomarini. A suo padre piacevano moltissimo i film di sottomarini, almeno così diceva, ma lui non era mai sicuro che suo padre fosse sincero su quello che gli piaceva. Diceva ad anche di amare la musica di Mahler, ma in casa non c’era nemmeno un disco di Mahler. Forse Mahler gli piaceva soltanto se ascoltato dal vivo, ma non gliel’aveva mai chiesto perché sapeva già che gli avrebbe risposto “Sì, infatti, dal vivo”. Suo padre non sapeva nuotare, e diceva che nessun vero marinaio è capace di nuotare, tanto se si fa naufragio di solito si è in mare aperto, e allora che differenza fa? Anzi, hanno più probabilità di salvarsi quelli che per prima cosa si attaccano a qualsiasi cosa galleggi, non come quelli che si affidano alle proprie forze, per non parlare poi di quando si è in un sottomarino. Solo che suo padre non era un marinaio.)

-È inutile.

-Cosa.

-Ti confido questa cosa di me e tu ti metti a sghignazzare.

-Ma non sghignazzo.

-Che c’è di divertente, ti diverte sapere che mi picchiava?

-No, per niente, sorridevo per––

-Per cosa allora. Che serata di merda.

-…revisioni sono tanto più precise quanto più passa il tempo durante il quale il cliente usa il software: proprio come la meteorologia, la linea del vostro destino si fa sempre più definita col tempo. Pithia, per così dire, dopo un po’ che la usate se lo sente nelle ossa, quando state per fare una castroneria. Perciò usatela, usatela, usatela ancora: l’uso ne migliora le condizioni. E fatela usare ai vostri amici: più Pithia ha cognizione di ciò che accade a un gruppo di coagulazioni del possibile meglio note col nome di esseri um––

-MI DICI O NO PER COSA CAZZO RIDI?

(A volte la sera suo padre si piegava in avanti e si prendeva la testa tra le mani, e lui credeva che magari stava pensando a Mahler: magari quando si prendeva la testa tra le mani suo padre ripassava tutte le sinfonie di Mahler; alla televisione una volta avevano detto che se si viene toccati in certe parti del cervello si possono sentire sapori, profumi di quando si era bambini; forse suo padre era capace di toccarsi così la testa per ricordare quando da bambino aveva ascoltato tutte le sinfonie di Mahler; chissà se Mahler era mai salito su un sottomarino. Poi una volta anche a lui era capitato di abbandonare la testa tra il reticolo delle dita, e aveva capito che Mahler non c’entrava e di colpo di era reso conto di essere diventato identico a––)

-Quanti più clienti sono iscritti al software Pithia, tanto più le previsioni, nuovamente, saranno precise, e nel caso tali clienti facciano parte di altri schemi già archiviati da altri le previsioni rasenteranno la certezza metafisica. Scegliete di rendere pubbliche le previsioni prodotte da Pithia ed entrate così anche voi nell’esclusiva rete premium di destini cristallizzati. Scaricatelo tutti, entrate in una nuova vita! Il Regno è qui.

(Il telo per le zanzare toccava le piastrelle del balcone come lo strascico di una sposa pezzente, il reticolo della sua ombra man mano sempre più trasparente al salire del tessuto.)

-Fatti vedere. Ho capito: ho capito: sei un robot.

-Come hai fatto?

(Rivide il momento del loro colloquio, non come era avvenuto ma come se l’era rappresentato: questo è l’unico modo per riconoscere i robot. Immaginare di prenderle la testa tra le mani, come per un dolce gioco di innamorati, cercare di farle spalancare gli occhi e a un certo punto dirle “Blocca”, e osservare l’improvviso arresto della pupilla e, purché si abbia occhio per queste cose, il breve microscopico barbaglio metallico della lente interna che si assesta colpita da un dardo riflesso del sole mattutino… Immaginarlo e basta, altrimenti il robot fiuterà la trappola e simulerà immediatamente la vita.)

L’ARCHITETTO: (Sorridendo canagliesco) “Non è vero!” aveva strillato lei su tutte le furie, ritirandosi e insieme sollevandosi sul bracciolo dall’altro lato del divano bordeaux su cui eravamo seduti, avendo nello stesso tempo cura (con i robot è tutto un “nello stesso tempo” e un “contemporaneamente”, anche se in questo caso si tratta di un indizio a-specifico, diciamo, dato che non eravamo in laboratorio; cronometro alla mano, si può misurare il progressivo rallentamento nell’esecuzione delle prestazioni, un rallentamento stabilmente progressivo e facilmente quantificabile, a differenza di noi ovvero voi umani, dove negli stati di crisi si riscontra sì un’alterazione nella velocità di prestazione, ma di tipo ondivago e instabile, comprendente talvolta persino accelerazioni), di restare in luce e di aprire e chiudere i microotturatori delle sue pupille per dare al suo sguardo quella perfetta imitazione dell’occhio umano che è il fiore all’occhiello dei bulbi oculari artificiali Hitachi, mentre il dotto lacrimale emetteva un fiotto calibratamente instabile di liquido lacrimale, e intendo vero autentico liquido lacrimale umano, alla Hitachi non badano a spese, “ogni lacrima dei nostri robot è stata pianta da uno dei nostri dipendenti”.

-…usilio di un semplice programma di realtà virtuale integrabile al pacchetto della vostra offerta, pootrete pre-vivere le proiezioni in prima persona e, all’interno di quelle proiezioni, effettuare nuove ulteriori proiezioni, il che vi potrà aprire––

(Raccontavano che uno degli utenti era rimasto così intrappolato in una specie di rosa mistica di proiezioni intorno alle possibili conseguenze dello smarrimento di un qualche non precisato oggetto, smarrimento nel quale l’utente riconosceva chissà che snodo fondamentale della propria esistenza; e così andivenendo tra smarrimento e ritrovamento l’utente aveva consumato, così si raccontava, quasi tutta la propria vita a controbilanciare i possibili. I «cosiddetti esseri umani».)

VALMARANA: …ma è stato quando quell’altro ha cominciato a parlare del cane che mi sono ricordato di mio padre sulla sedia pieghevole in Jugoslavia, con la testa tra le mani, la sedia azzurra pieghevole da pescatore, una sedie fatta con una tela che sembrava di jeans e che era diventata pallidissima per via del sole, eccetto che per le pieghe lungo i tubi di ferro del suo scheletro, dove ancora sopravviveva il blu scuro originale, e ogni volta pensavo a come doveva essere la sedia quando era tutta di quel blu, strizzavo gli occhi e cercavo di vedere mio padre con la testa tra le mani sulla sedia completamente blu, mio padre con la testa tra le mani, seduto come se stesse cacando, con la testa tra le mani, era quasi sempre in quella posizione e quando era in quella posizione voleva dire che non bisognava disturbarlo perché stava pensando, e questo voleva dire che mio padre era intelligente, solo le persone intelligenti si prendono la testa tra le mani per pensare anche quando ci sono altre persone, e io volevo essere come lui, intelligente come lui, anche se adesso penso che non era per l’intelligenza, o non soltanto per l’intelligenza che mio padre si prendeva in quel modo la testa tra le mani; a volte lo trovavo seduto sul bordo del letto che fissava attraverso la finestra il paese nella valle di fronte, ovvero quello che ne era restato dopo l’alluvione, e anche se guardava fuori era un po’ ingobbito e sembrava più un sonnambulo, seduto sul bordo del letto, sui bordi del letto, seduto sui bordi del letto fissando l’estate fuori dalla finestra, ed era come se avesse sempre la testa tra le mani, e anche se avrei voluto andargli vicino sapevo che non dovevo disturbarlo. Quando mio papà gridava sentivo il cuore lacrimarmi fuori dal cervello. Tutti i parenti avevano riso, e aveva riso anche mio padre quando aveva raccontato che in quarta elementare avevo scritto quella frase tra gli esercizi. Le preposizioni articolate. Da + Il. Scrivi cinque frasi con.

«Quando mio papà grida io sento il cuore che lacrima dal cervello.»

E la maestra, una scheggia impazzita dell’istituto cui mi avevano mandato, sempre sull’orlo del licenziamento la sua capacità di infilare considerazioni oltraggiose, blasfeme, persino pornografiche nelle proprie lezioni di grammatica, aveva preso su il telefono per chiamare i miei genitori e leggere loro la frase per telefono, in qualche sua tossica maniera commossa dal fatto che mi ero inventato il verbo lacrimare, o forse – questo lei voleva anzi doveva sapere, come disse anzi praticamente strillò al telefono quando chiamò i miei genitori – l’avevo sentito dire da qualcuno cui lacrimavano gli occhi e avevo pensato che il cuore allora era la lacrima del cervello. Mio papà rideva, ma non avevo mai avuto il coraggio di andargli vicino quando aveva la testa tra le mani o era seduto sui bordi del letto. Volevo andargli vicino perché pensavo fosse triste e che magari gli avrebbe fatto piacere avermi vicino a raccogliere il suo cuore quando gli fosse lacrimato dal cervello facendo s’ciàc sulle piastrelle, e fino a quando quell’altro non ha tirato fuori la cosa del cane non avevo capito che se alla fin fine non andavo mai vicino a mio padre non era per timidezza o per delicatezza ma era perché sapevo che quando era così e bisognava non disturbarlo (la mamma mi diceva proprio così, “bisogna non disturbarlo” e non “non bisogna disturbarlo”: bisogna non disturbarlo; la cosa mi creava una confusione terribile, perché a scuola mi avevano spiegato e rispiegato che la posizione delle parole era una cosa delicatissima, come dire quando o no pisciarsi nelle mutande, diceva la maestra, quando si può? quando non si può? stessa cosa con le frasi, e allora un giorno avevo provato a chiederle una spiegazione o almeno un suggerimento su dove mettere il non, e quella era stata la prima volta che la maestra aveva ricevuto un richiamo formale in mia presenza), quando era così in realtà mio padre stava pensando se valesse la pena ucciderci tutti oppure no, e l’ho capito solo quando quell’altro ha tirato fuori la cosa del cane, cioè che voleva comprarsi un cane, perché lì ho pensato anch’io a ucciderli tutti, proprio le persone che si supponeva amassi di più, e anch’io ho fatto quello stesso sorriso da maschera della pace che mio padre aveva sempre su, e avrei voluto quasi prendermi la testa tra le mani e avere la sedia azzurra da pescatore per guardare l’estate, o stare sui bordi del letto ingobbito a fissare le rondini che si ingozzavano di mosche fuori dalla finestra, aggrappandosi a invisibili imperfezioni del muro, cigolando come topi condannati al volo.

Il vecchio gatto persiano sieropositivo senza una zanna e senza un occhio è uguale a mio padre, ne è la versione disinnescata. Il gatto è la versione disinnescata di mio padre. I rituali degli animali, residui di pratiche che al tempo in cui nacquero avevano un senso. Una volta fatta una scelta non si torna indietro, non si torba indietro, ci si può solo pentire, questo soltanto è permesso. Ma uno può pentirsi per i propri peccati e finire in paradiso. Le prime cose che mi vengono in mente quando penso a mio padre: chiedeva sempre se non era meglio un’altra possibilità rispetto a quella prescelta; preveniva sempre con tutta la gentilezza possibile ogni errore altrui; derideva, sempre con la massima gentilezza possibile, errori fatti in propria assenza; mangiava tutte le briciole di pane del tavolo pinzandole una ad una con scatti rapidissimi e rondineschi della mano; con gesti simili si sistemava i capelli, come chi cerchi di allontanare un calabrone dal proprio cranio; beveva vino per poter dormire il più possibile durante il giorno; si teneva la testa tra le mani e pensava; stava in bagno per ore; sorrideva a tutti, anche agli estranei, e soprattutto continuava a sorridere anche quando loro non ti vedono più. Sorridere fino a che il sorriso non diventi la forma abituale della tua bocca, da portarti nella tomba.

-Grazie a Pithia non vi accadrà mai più nulla di male: mai.

Dormiva molto e beveva una bottiglia di vino al giorno. Spesso lo vedevo con la testa tra le mani. Avevo paura al solo pensiero di andargli vicino a chiedergli cosa avesse, perché sapevo già che avrebbe lasciato passare una ventina di secondi tra la mia domanda e l’alzare la testa, stropicciarsi brevemente gli occhi e rispondere, Niente. Si attaccava alle maniglie di sicurezza sul tettuccio interno della macchina. Dopo un po’, si scollavano. Lo faceva per tenere forti i muscoli o per trattenersi dal tirare un pugno in faccia a mia madre?

-…nato con scopi ludici e di addestramento militare: i giocatori e i soldati, invitati dal software a sottoporre situazioni particolarmente avventurose o improbabili o divertenti, avevano iniziato a presentare situazioni del tutto banali. Per legge, in certe regioni o stati potrebbe esservi richiesto di registrare in questura il vostro profilo Pithia, in modo che ci siano previsioni ancora più corrette e efficaci e una soddisfazione maggiore per voi. A nessuno viene impedito di “fare” niente. Mai.

TOMAŠ BRUŠEK: La pelle si era annerita con la rapidità di un effetto speciale cinematografico. Sembrava quasi che mi avesse dato appuntamento per mostrarmi la sua morte. Quando lo portarono via, la necrosi epidermica era così avanzata che i poliziotti e gli infermieri sembravano i membri di una setta incaricati di recuperare l’ombra dell’imperatore per restituirgliela. All’inizio mi aveva parlato in modo autoritario, poi, quando si era accorto del colore che aveva assunto, aveva abbandonato quelle maniere affettate e mi aveva rivolto con uno sguardo di supplica. Supplicare che, poi. Ma cominciamo con il territorio. No. Volevo dire il terrario, non il territorio. Io ho un terrario, dove tengo i miei vermi. Ecco, forse è meglio cominciare con i vermi. Quando si taglia in due un verme, le due parti continuano a vivere finché non diventano due nuovi vermi. Forse i vermi di oggi sono pezzetti di un primo unico verme nato nel Protozoico e segato in due da una frana o da un altro essere primordiale in una microlotta mitologica. Sono riuscito, studiando ovvero allevando i vermi del mio terrario, a mettere insieme un composto speciale che non so ancora come usare, ma che credo potrebbe essere utile per gli ospedali, o forse per le industrie alimentari, ma andiamo con ordine. Cominciamo da mio padre. Prima mio padre, poi i vermi, poi il terrario, poi, forse, il territorio. Mio padre mi faceva sempre lo stesso gioco, quel gioco di illusionismo in cui si sistemano e si muovono le dita in modo che sembra che una mano stacchi la punta dell’indice all’altra. Molte volte ho chiesto a mio padre di porgermi il dito staccato per poterlo esaminare. Dal fatto che eseguiva l’operazione senza sforzo, capivo che si trattava di magia. Volevo controllare che aspetto avesse la parte in cui il dito si era staccato. Non volevo vedere la mano, non mi interessava sapere se mio padre fosse ferito, era il dito che volevo esaminare. Dimenticavo il sangue e immaginavo il punto in cui il dito si era separato dalla mano come un fascio di tubicini colorati che si muovevano debolmente, tastando l’aria alla ricerca di un appiglio, una nuova mano cui attaccarsi, arrotolandosi come lingue di farfalla. La notte restavo le ore a fantasticare sul dito di mio padre, ma non ho mai provato a staccarmi un dito io stesso, non da bambino, almeno: è stato quando ho smesso di pensare a mio padre e alla sua magia–– ma andiamo con ordine. Prima mio padre, poi il suo dito, poi i vermi, poi il terrario, poi il mio dito e solo alla fine, semmai, il territorio. Terrario, fatto. Vermi, fatto. Mio padre e il suo dito, fatto e fatto. Manca solo da spiegare il composto. In effetti però non c’è proprio tempo per spiegare un bel niente. Ma è presto detto. È un composto molecolare vivente cioè pseudovivente. Si può mangiare. Detto in due parole, il procedimento è semplice: sono riuscito a trovare il modo di affettare e affettare i vermi fino ad arrivare a vermi piccolissimi, lunghi poco più di un atomo. Nessuno spreco. Nessuno spreco di spazio. È una specie di liquido rosa, ma se si aspetta troppo ad utilizzarlo diventa un bidone di vermi, buono al massimo per andare a pescare, quindi bisogna iniettarselo in fretta, prima che i vermi crescano troppo, altrimenti sono dolori. Con questo stupido errore ho ucciso il mio cane. Non è stato per niente un bello spettacolo vedere i suoi occhi che mi imploravano perché trovassi una soluzione alla cosa incomprensibile che gli stava capitando. O forse voleva solo sapere qual era la sua colpa, dato che per ogni buon cane è scontato che una colpa ci sia, qual era la colpa che aveva commesso per essere punito in un modo così orribile. E il mio cane era buonissimo, perciò–– (Pausa.) Era da un po’ che non ci pensavo più. Povera bestia. L’ho tradito. A volte sogno che sia ancora a trascinarsi in giro per la casa come negli ultimi giorni di vita, cercando di scodinzolare, di mostrarsi un volenteroso bravo cane, e forse meritarsi così la fine del castigo. Bravo cane. Ho dovuto aspettare che fossero i vermi ad ucciderlo, altrimenti le sue sofferenze non sarebbero servite a niente. È la scienza, non c’è proprio nulla di scandaloso, niente di cui io debba vergognarmi. Bravo cane. Ora ho imparato alla perfezione: appena ottenuto il composto, lo si mette nella parte prescelta; la dose dev’essere minima altrimenti il composto risulta troppo tossico, vale a dire semplicemente che i vermi hanno il sopravvento. L’idea mi è venuta a Siracusa, al mercato del pesce, quando ormai ero bell’e cresciuto e avevo dimenticato da tanto tempo il dito di mio padre. Quello mi è venuto in mente ieri. Una signora aveva chiesto un pezzo di anguilla, e l’uomo della pescheria ne aveva raccolta una dalle vasche dove le tenevano vive. La vita è il miglior conservante. Spruzzavano acqua sopra i pesci per tenerli vivi, freschi, anche se ormai non erano più pesci, erano cibo, erano vivi ma non erano più niente. Si può vivere senza essere niente. Certo che sì. Lo facciamo tutti, e per una specie di vendetta cerchiamo di farlo anche agli animali. Per conservare la sua preda e mangiarla quando vuole, il ragno la paralizza ma non la uccide. Anche lui vive come paralizzato nel centro della tela. Ecco che vuol dire vendetta: ti costringo al gioco dello specchio; ti faccio vivere, nella morte, la mia vita. Alcuni ragni possono digiunare per giorni interi. L’anguilla gli è sfuggita di mano e gli è caduta sulle piastrelle bianche della pescheria in mezzo ai clienti con uno schiocco come una sculacciata, s’ciàc, e l’anguilla si torceva come l’ombra impazzita di un serpente, tanto che quasi mi veniva da guardare se sopra le nostre teste si stesse realmente librando un drago. L’uomo della pescheria alla fine è riuscito a riprendere in mano l’anguilla, l’ha sbattuta sul bancone e l’ha tagliata in due, poi ancora in due, poi ancora in due, in rettangoli, e ogni volta le parti tagliate continuavano a muoversi, e anche quando ha impacchettato due rettangoli di carne per la signora, il pacchetto si muoveva ancora. Due diviso due diviso due diviso due… e zàc, mi è venuta l’idea. La dose deve essere piccola: guarda caso, va giusto giusto bene per riattaccarsi un dito. Riattaccarsi un braccio, ancora non si può, i vermi avrebbero il sopravvento. La prima volta mi sono tagliato solo un polpastrello. Avendo visto come si era ridotto il mio cane, me ne sono iniettata pochissima, appena sotto un’unghia. Con il polpastrello mi ha fatto più male che con tutto il dito, con tutto il dito non ho perso praticamente nemmeno una goccia di sangue, ma ormai avevo capito bene le dosi da usare. A dire la verità lo avevo già capito prima del polpastrello, ma il mio cane mi aveva spaventato. Ma andiamo con ordine. Il polpastrello. Dopo averlo tagliato l’ho appoggiato nel terrario dei microvermi. Sprofondava nel terriccio e dopo un po’ ha iniziato a strisciare: i vermi si erano installati. Così rotondo e rosa contro il nero della terra il polpastrello sembrava una luna giocattolo o un grosso coriandolo o una chiazza negli occhi o nel cervello. Poi è scomparso sottoterra, ma la dose era sbagliata e ho perso un po’ di sangue e ho anche sentito un po’ di male, però mi è passato subito e non ho pianto neanche un po’. Dopo aver visto il polpastrello sparire sottoterra ho preso coraggio e ho usato la dose necessaria, quella che consideravo giusta, del liquido di microvermi. Per quando la metterò in vendita devo trovare un nome più accattivante, liquido per microvermi è terribile. Ma anche gli effetti collaterali lo sono. È stato come dal dentista, non senti più il dito dopo l’iniezione, come se fosse morto, ma la differenza è che il dito non è addormentato come succede con i denti. Tutto il contrario. Anche quando l’ho tagliato ha continuato a muoversi. Per la verità già pochi secondi dopo l’iniezione, quando ormai non lo sentivo più e sembrava addormentato, l’indice (l’indice sinistro ho tagliato, ecco perché poi mi è venuto in mente mio padre, l’indice sinistro proprio come faceva mio papà quando giocava con me; è stupido da dire, ma quando ho preso in mano il dito tagliato, guardando come cercava di divincolarsi dalla presa delle mie dita, mi sentivo esaltato come se avessi finalmente realizzato un vecchio sogno nascosto di mio padre, un sogno che lui aveva soffocato – e qualcosa ha soffocato di sicuro, lo vedevo bene quando stava così seduto con la testa tra le mani, sordo a tutto – anzi un sogno ancora più antico di lui, il sogno di mio nonno, del nonno di mio nonno, il sogno segreto della nostra famiglia fin dai primi progenitori–– chiaro dove voglio arrivare no? Il sogno o l’incubo, il nostro stemma araldico, un dito tagliato, fa lo stesso, dato che l’avevo realizzato non c’era più differenza se fosse un sogno o un incubo. Ancora adesso, solo a raccontarlo penso al riscatto della nostra povera famiglia, alla sua completa riabilitazione quando il liquido rosa sarà lanciato sul mercato, per gli ospedali o per le industrie alimentari, o per i soldati, ancora non lo so, forse per tutti, penso alla liberazione, no, alla riabilitazione della nostra famiglia, e solo parlandone, e parlando del dito tagliato e di come si muoveva ancora, e di come anche lui si è subito infilato sottoterra, nel terrario, penso a tutto questo e mi rendo conto di aver fatto la cosa più bella che un figlio possa mai fare, o la più tremenda, è lo stesso, tra padre e figlio bello e tremendo sono la stessa cosa, mi tremano le mani mentre scrivo queste cose, ho i brividi su e giù per la schiena e scendono lacrime di gioia) l’indice, bisognava vederlo, il mio indice! Per la verità non è più mio; fin da prima che lo tagliassi dalla mano, anzi, non era più mio, altrimenti non sarei mai riuscito a tagliarlo. Subito dopo essermi fatto l’iniezione, nell’incavo tra il medio e l’indice, il dito è diventato dei vermi (questo è il nuovo problema, è per questo che il lavoro dello scienziato è così affascinante, ogni problema che risolvi, zac, ce ne sono sotto altri due, come quando mangi il carciofo, e adesso il nuovo problema è riuscire a non appartenere ai vermi dopo l’iniezione), e ha iniziato a muoversi in modo così strano che praticamente l’ho tagliato solo per levarmelo di dosso, si torceva come il collo di un cigno, in quel momento non pensavo più per niente all’esperimento, volevo solo togliermi dalla mano quella roba, come i peccatori dei Vangeli che si strappavano gli occhi, si tagliavano le mani, gettavano tutto nell’abisso e vaffanculo. Mi grattava il palmo con la sua unghia con mosse scorpioniche, spingeva l’unghia contro il palmo, lui stesso come cercando un appoggio per riuscire a strapparsi dal mio corpo. Con la mano appoggiata sul tavolo bianco, il coltellaccio per tagliare il dito, le fiale, i becchi dei fornelli, le ampolle, il terrario, sembravo il personaggio di un film giapponese del terrore, o uno di quegli scienziati pazzi dei libri per bambini. Attraverso il moncherino, sento già il nuovo dito che spinge per uscire, come se fosse intrappolato in un guanto troppo piccolo o in un guanto con un dito in meno, come quelli di Mickey Mouse, e nemmeno questo dito, ho paura, vorrà appartenermi, si muove per conto proprio anche lui, forse è successo che non ho tagliato abbastanza in alto o abbastanza in fretta dopo l’iniezione, e così il liquido rosa con cui ho realizzato il sogno di mio padre (o forse era il mio sogno, e tutto questo orgoglio e questi brividi sono solo per me? è mai esistito poi mio padre? anche in questo caso però è lo stesso, almeno credo), il liquido rosa dev’essersi mescolato con alcuni globuli rossi che stagnavano nei vasi della mia mano anestetizzata. Liquido rosa è un nome altrettanto cretino che Liquido di microvermi. Forse potrei combinare i due nomi e vedere cosa viene fuori. Microrosa, per esempio. Ci penserò quando sarà pronto, adesso in queste condizioni non può assolutamente essere lanciato sul mercato, nemmeno come giocattolo con cui torturare gli animali. Forse dovrò tagliarmi sul serio la mano come i santi peccatori dei Vangeli, e così andrò ancora al di là del sogno di mio padre, l’incubo di mio padre, quel che è. A volte il dito tagliato affiora lungo le pareti del terrario. Si muove in continuazione e si nutre solo di terra, e con questa dieta ha preso un colorito scuro, e a furia di strisciare su e giù per il terrario è diventato più magro, più flessibile, sembra persino più lungo, come se gli fosse cresciuta una nuova falange, niente di strano per la verità, gli anellidi cioè i vermi fanno esattamente così, un anello dietro l’altro, una falange dietro l’altra, anche l’unghia continua a crescere e la notte la sento ticchettare come un orologio scassato contro le pareti di vetro del terrario, e non mi lascia dormire, adesso nessuno riconoscerebbe in quel dito il mio dito, sembra più il dito di uno stregone africano. Di giorno osservo la superficie del terreno, cercando di indovinare da dove sbucherà il dito; quando si muove bruscamente, ci sono dei piccoli smottamenti, si tracciano delle strisce di terra come le tracce di Bugs Bunny nell’orto di Duffy Duck. (Pausa di alcuni giorni.) Il nuovo dito sta spuntando sulla mia mano; stamattina mi prudeva da morire, e stasera ho visto che una cresta nerastra aveva finalmente bucato la pelle: l’unghia del nuovo dito. Lo sento che si muove delicatamente nella mia mano, come un feto nel ventre materno, dev’essere la stessa cosa, credo che se una donna non sapesse cosa sia morirebbe dalla paura a vedere la pancia sempre più gonfia e a sentire questo corpo che si muove dentro di lei. Chissà se hanno mai fatto esperimenti per vedere cosa succederebbe. A pensarci bene, la nascita è davvero qualcosa che ha del vomitevole, dico il modo in cui avviene, a pensarci così a mente fredda il modo in cui si nasce (parlo di qualsiasi tipo di nascita) si direbbe più appartenere a un qualche mostro fantastico che a un animale reale. Mi piace. In qualche modo, pensare di essere un animale fantastico come una sfinge o una chimera o un pipistrello mi fa stare bene, mi concilia il sonno ecco. Con i vermi è diverso, basta tagliarli in due e subito ottieni due vermi, e questo è l’unico modo sensato di nascere, tagliati in due e poi in due e poi in due e poi avvolti nella carta dall’uomo della pescheria, e poi sbucare fuori a tradimento dalla borsetta della signora che credeva di farsi una scorpacciata di capitone, mentre gli altri modi, i nostri modi, sono talmente inverosimili che devono essere stati inventati a tavolino da qualcuno, e non sono reali. Ciò che viene inventato non è reale, le uniche cose reali o sono così da sempre o lo sono diventate, ma nessuno le ha inventate. Ma ora una parte di me, il dito che ho tagliato e si divincola nel terrario e quello che sta spuntando, come un germoglio, dalla mia mano, è finalmente reale, e la prima prova del fatto che è reale non è tanto il suo modo di nascere, quanto il fatto che non posso controllarla. Prima il controllo, poi il modo di nascere. Non posso controllare il lungo magro dito unghiuto da stregone africano che si inarca nel terrario e che un giorno o l’altro troverà il modo di arrampicarsi fuori dal laboratorio o almeno di strapparmi gli occhi e gettarli nell’abisso con quelli dei santi pescatori, e non posso controllare il dito dentro la mia mano, ecco perché quei due diti sono reali. Tutto ciò che non posso controllare (il cielo, le nuvole, le stelle, il mio sangue, i miei diti) è reale, mentre quello che è sotto il mio controllo è lo stesso di quello che sto scrivendo: una favola. Quello che si controlla lo si controlla perché è inventato. Meno posso controllare qualcosa, più quella cosa è reale; le decisioni che hanno avuto un reale influsso sulla mia vita e che chiunque crede mi appartengano, in realtà sono state dettate da impulsi incontrollabili, ecco perché il loro influsso è stato reale. Più posso controllare le cose più quelle cose diventano irreali come racconti o poesie. Più posso controllare quello che mi accade, meno ogni cosa mi accade. Si ritrae, come una lumaca che sparisce nel proprio guscio. Forse dovrei davvero iniettarmi una dose errata o avariata di liquido rosa e diventare reale come il mio cane, non c’è nulla di più reale di un cane, un cane praticamente non può controllare nulla, però è proprio il pensiero di quello che è successo al mio cane che mi ferma, ma forse verrà un giorno in cui al contrario quello stesso pensiero, del mio cane e di quello che gli è successo, mi darà il coraggio di procedere con l’iniziez–– con l’iniezione. (Pausa. Si fissa la mano. Dopo un po’, rivolto ad un uditorio immaginario, ridacchiando imbarazzato come se solo in questo momento si fosse accorto della sua – del pubblico – presenza e della sua – di se stesso – scortesia) Sorveglio di continuo la mia mano, che non inizi a compiere movimenti anomali, pronto a tagliarla e gettarla nell’abisso. Vedere i movimenti delle mie dita ormai mi fa orrore, come se fossero anche loro pronte ad unirsi al lungo indice unghiuto che le attende nel terrario e che ogni tanto si torce in maniera ributtante e, secondo mi pare, lasciva, come per invitarle a intrecciarsi alla sua pelle di lucertola. Il colore stesso della mia pelle, ormai così simile a quello del liquido, mi fa orrore, e mi fanno orrore i miei simili, come se avessi scoperto che tutti quanti siamo una specie mutante di anellidi, nati chissà quando dopo un mostruoso accoppiamento tra una scimmia e un verme carnivoro.

VALMARANA: Mi manca la mamma. Scusa per prima vecchio mio. Mi manca, capisci. Mi raccontava sempre la stessa favola, sempre con le stesse parole, tanto che le ricordo ancora perfettamente… Il re dei pappagalli… (parla a memoria, con voce cantilenante, come se raccontasse ad un bambino. Si avvicina all’uomo mascherato, si siede ai piedi della poltrona e appoggia la testa sulle sue ginocchia. L’uomo mascherato lo accarezza, poi dopo un po’ inizia a suonare il violino.) Non sanno se sia un uomo. È sempre fermo sul suo trono, in mezzo ai rami. Impartisce i suoi ordini parlando con una voce da bambola meccanica, e i pappagalli gli ubbidiscono. In realtà, i suoi ordini non sono veri ordini, sono soltanto frasi che la bambola meccanica ricorda o ripete, ma per i pappagalli sono degli ordini. Ogni giorno centinaia di pappagalli scendono al trono del loro re, in mezzo ai rami, e con le loro piume colorate sembrano frutti che si spaccano sui rami. Alcuni, i più anziani, si siedono sulla testa del re. Dopo un po’, le palpebre di legno del re si sollevano, e dal buco che c’è al posto della bocca iniziano ad uscire degli ordini. Forse c’è un uomo, o meglio ancora un bambino, o meglio di tutti un nano, nascosto dentro la pancia della bambola meccanica, e forse è lui a parlare ai pappagalli, imponendo su di loro il suo comando con l’inganno. Nessuno lo sa. Man mano che il re ripete i suoi ordini, anche i pappagalli, un po’ alla volta, iniziano a ripeterli, fino a che non hanno imparato alla perfezione le parole del loro re, come una canzone; allora volano via, come sangue che cola dai rami, e iniziano a volare sulla foresta diffondendo le parole del loro re, diffondendo i suoi ordini dalle cime degli alberi come un canto d’amore. Quasi sempre si tratta di ordini incomprensibili, ma il popolo dei pappagalli fa del suo meglio per obbedire al proprio re, e quando obbedire all’ordine è proprio impossibile, allora i pappagalli lo cantano con voce ancora più alta, forse per il dispiacere di aver tradito il proprio re. Da molti, moltissimi anni, e forse fin da quando i pappagalli sono stati creati, il popolo dei pappagalli è in guerra con la città dei maghi. Non si tratta di un assedio; il popolo dei pappagalli non ambisce affatto a conquistare la città dei maghi; i due popoli vogliono semplicemente la scomparsa definitiva l’uno dell’altro. Si dice che questo odio venga dal fatto che un tempo i maghi e i pappagalli erano fratelli. I maghi uccidono i pappagalli frustandoli alla testa con lunghissimi e sottili bastoni, poi posano i loro cadaveri dentro lunghe fornaci, per fare essiccare i corpi. Quando i cadaveri sono pronti e vengono tirati fuori dalla fornace, i pappagalli sono diventati talmente sottili da essere ormai irriconoscibili, non fosse per il loro colore sgargiante. Sembrano ali di farfalla, e forse davvero i maghi con un incantesimo aiutano i cadaveri di pappagallo a diventare, almeno in parte, delle farfalle, dentro la fornace, infatti il loro colore, se solo li si sfiora o se c’è molto vento, scivola via proprio come la polvere colorata delle farfalle. Con dei piccoli pennelli, i maghi tolgono tutta la polvere colorata dai corpi dei pappagalli e la raccolgono in una serie di clessidre di varia grandezza, con le quali i maghi misurano il cammino delle stelle; queste misurazioni sono indispensabili ai maghi per perpetuare la loro tirannia. I pappagalli morti cadono dagli alberi come frutti, così… s’ciàc! (Riscuotendosi.) Da bambino, a questo punto della storia chiedevo sempre cosa facessero i maghi con i corpi dei pappagalli, e chiedevo sempre alla mia balia se lei non ne avesse conservato almeno uno da farmi vedere. Durante le passeggiate in giardino osservavo gli uccelli e mi chiedevo cosa avrei potuto fare con i loro cadaveri o che forma avrebbero potuto avere una volta essiccati. Una volta avevo visto un’amanita essiccata. Sembrava una merda secca. (Pausa.) Quello che non mi piaceva era l’idea della polvere colorata che doveva uscire dai loro corpi, perché gli uccelli del nostro giardino non avevano gli stessi colori dei pappagalli, e mi sembrava che la polvere degli uccelli che vivevano da noi fosse più simile alla terra che alla polvere delle ali delle farfalle, e che sarebbe stata del tutto inutile per le clessidre. Durante l’assedio a Malta, tra i prigionieri ho conosciuto un armeno che conosceva l’altra parte della storia. I corpi dei pappagalli, ormai trasparenti come foglie chiuse in un libro, vengono sistemati uno sopra l’altro dentro piccole botticelle che poi i maghi riempiono di mercurio. La droga ricavata dai corpi dei pappagalli così trattati permette ai maghi di vedere nel passato. I maghi usano questo potere più che altro per stupidi trucchi di magia nelle fiere o nei castelli, o per vincere alle carte. Il potere dato dalla droga di pappagallo è momentaneo, e se usata troppo spesso la droga rallenta o inverte la visione del presente, anche se non so di preciso cosa questo significhi, e provoca gravi alterazioni del destino. (Pausa.) A volte, senza nessun preavviso, i pappagalli si gettano su un mago uscito dalla città per raccogliere erbe nella foresta e, in poco tempo, lo fanno a pezzi con i loro becchi affilati. I testi esoterici di magia, più che altro filastrocche che i maghi imparano a memoria da bambini e poi è già tanto se arrivano a capirci qualcosa da vecchi–– queste filastrocche dicono che un mago divorato dai pappagalli è destinato, attraverso trasformazioni incomprensibili e terrificanti, a diventare il nuovo re dei pappagalli. (Pausa.) Io penso che la casta più alta dei maghi esista solo per comprendere la natura di queste trasformazioni, in modo da riuscire finalmente a sostituire il popolo dei pappagalli. Sostituire è lo stesso che annientare. Alcuni pensano che questa trasformazione sia già avvenuta. Niente potrà sterminarci, se non le metamorfosi. I pappagalli non fanno nessuna fatica ad affondare i loro becchi nella carne dei maghi cedevole come frutta, e durante il pasto ripetono gli ordini del loro re. Dopo aver finito di divorare il mago, molti di loro sono talmente insozzati dal suo sangue incrostato che per lungo tempo non riescono a volare, e si allontanano dallo scheletro del mago a piccoli passetti, tutti in fila come un serpente arcobaleno, verso lo specchio d’acqua più vicino. Il momento durante il percorso dallo scheletro del mago all’acqua è quello in cui i pappagalli sono più vulnerabili, perciò… (Si addormenta. La scatola sul tavolo si muove. Buio. Immagini stroboscopiche di fiammelle di varie dimensioni. Jingle pubblicitario. Valmarana è sdraiato sulla branda.)

L’ARCHITETTO: …per gestire tutte queste complicatissime operazioni mimetiche i robot sono dotati di un secondo cervello, un po’ come i camper hanno una doppia batteria o i brontosauri un ganglio supplementare alla base della coda, un cervello del tutto indipendente dal primo, con una propria memoria e un sistema operativo dedicato. I due cervelli vengono poi sincronizzati da un terzo cervello, una sorta di avanzatissimo cronometro, diciamo così, che comprende sia orologi atomici di ultima generazione che clessidre e antichi e minuscoli orologi ad acqua, questo perché le reazioni somatiche possono e quindi per la Hitachi debbono essere anche imprevedibili, anche se nei primi prototipi parametri di imprevedibilità un po’ troppo laschi hanno dato luogo ad incidenti abbastanza grotteschi. Ma ormai il numero del pianto incontrollato sul bracciolo del divano non mi incanta più, quindi sorrido senza provare la minima compassione (coi tempi che corrono la compassione è diventato un sentimento in certa misura dipendente dalla volontà, né saprei dire se questo sia un passo verso l’illuminazione o verso la distruzione irreparabile del Nirvana), sorrido indifferente come se vedessi una figurina di Sherwood Fighter™ massacrata da un’altra figurina di Sherwood Fighter™ (il primo germe dell’infezione alla compassione è lì, o forse ancora prima nelle fiabe malriuscite che mettono in scena tragedie cui i nostri cuori restano indifferenti divenendo così sempre più simili ai cuori Hitachi). “Se l’avessi saputo” dice lei in un ultimo disperato tentativo di convincermi e che invece mi fornisce la prova definitiva, “Se l’avessi saputo mi sarei strappata gli occhi e li avrei mangiati”; “Buon appetito allora, stronzetta” le dico mentre lei mi si avvicina per una finta aggressione femminile che probabilmente si concluderà con del sesso artificiale. Non si può credere quanto siano infoiate queste lattine, finché non lo si prova.

VALMARANA: Mio padre rigirava il cappello tra le mani come un angelo il proprio cielo. Sorrideva e rigirava il cappello. La notte pensavo che le stelle sono come piccoli buchi in un cappello di paglia, e che io ero sotto quel cappello, e che sopra il primo cappello ce ne fosse un altro e poi un altro e un altro. Un cappello dentro l’altro a ruotare uno sopra l’altro, rigirati dalle mani di angeli sorridenti. Lui dentro un cappello rigirato da un altro angelo dentro un altro cappello rigirato da un altro angelo ancora, come in un brutto Magritte… Guardando in alto con la giusta angolazione, infilando lo sguardo nella stella cioè nel buco giusto, si vede la fila infinita di teste come bordi di specchi negli specchi, solo che ogni volta la faccia è una faccia diversa (ma mai troppo diversa), e si vede l’infinita serie di mani che la distanza progressiva fa apparire di eguali dimensioni ma leonardescamente sempre più sfocate e trasparenti, e lente e fluide nel movimento di rigirare il cappello. E quindi non serve a niente anche se riuscissi a togliere un cappello: sopra ce ne sarà un altro, tenuto in mano da un altro padre ancora più sorridente, e un altro ancora, e così via all’infinito… Un brutto Magritte.

T–––Š B––––K: Non c’è nulla di più reale di un cane…

-Vieni.

-Dimmi cosa c’è.

-Vieni, non te lo dico davanti a tutti.

-Qui non c’è nessuno.

Pithia! Siete pronti a dire addio per sempre alle lacrime?

[continua il 22 settembre 2020]