Presiden arsitek/ 2

di in: Presiden arsitek

a Viviana Piccolo

 

 

La figura in camice bianco in alto a sinistra nella fotografia al n. 4 è stata identificata come il dottor T***š B****k; per la verità il profilo è quasi di spalle, e in ogni caso la bassa definizione della fotografia non permetterebbe di identificare in modo convincente la figura, ciononostante lo stesso dottor T***š B****k non ha avuto difficoltà a riconoscere di essere proprio lui la persona che, nel momento in cui la fotografia è stata scattata (forse qui è bene precisare che in effetti non si tratta di una vera e propria fotografia: il n. 4 è semplicemente uno dei fotogrammi di una ripresa effettuata da una delle quattro telecamere posizionate nel laboratorio, donde la bassa qualità dell’immagine) sta girando alcune manopole posizionate sul casco di uno dei tester/vittime, la cui bocca spalancata e gli occhi chiusi potrebbero far pensare che il tester/vittima in questione stia sbadigliando, non fosse che le mani stanno a quanto pare artigliando i braccioli della poltrona da barbiere (alcune fotografie portate come prova – ma a ben vedere non è affatto chiaro di cosa siano o vogliano essere prova – dall’accusa mostrano che le poltrone erano davvero autentiche poltrone da barbiere, vecchie poltrone anni ’50 in pelle marrone con la base in ceramica smaltata, con tanto di leve idrauliche per regolare posizione e altezza, poggiapiedi di ferro e poggiatesta sostituibile dal piatto per lo shampoo; l’unica modifica apportata da T***š B****k ovvero dalla sua equipe ai modelli originali da barbiere sono le cinghie per impedire movimenti bruschi ai tester/vittime durante le sessioni di gioco e naturalmente i caschi, che esaminati da vicino non sono affatto simili a dei caschi per la messa in piega; piuttosto, in effetti, nell’insieme, con i caschi e le cinghie e tutto, le poltrone sembrano un tipo particolarmente confortevole – dopotutto con queste foto la difesa voleva forse creare un ulteriore effetto o alone negativo intorno a tutto il laboratorio, alone che però, con i due suicidi e i quattro ricoveri d’urgenza che già contribuivano a rendere abbastanza sinistra tutta la faccenda legata a NITA™, ha finito per risultare pleonastico e quindi forse dannoso – un tipo chiamiamolo così deluxe di sedia elettrica) ma la qualità dell’immagine è davvero talmente cattiva che, cinghie o non cinghie, in coscienza nessuno è stato in grado di dire se si trattava di uno sbadiglio o di un grido, né tantomeno di capire se le mani stavano davvero artigliando i braccioli. Una cosa è il colpo d’occhio, una cosa è una prova processuale.

 

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Quando mi sono svegliato, il presidente era già lì.

 

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Per il famigerato spot pubblicitario della Spa Augustus di Briwen nel distretto di Schwarzschwarz (spot che è un autentico cimelio per cinefili e criminologi in quanto da annoverare tra le pochissime produzioni “legali” – le virgolette, come si vedrà, sono d’obbligo – del regista portoghese), Carlos Adra aveva deciso di rifarsi al tradizionale binomio clownesco Augustus e ContraAugustus, vale a dire, per chi non fosse iniziato all’esoterica circense, il clown Augustus con le corna da cervo e il clown ContraAugustus con le piccole corna d’oro. È tutt’ora oggetto di controversia di chi sia la responsabilità dell’approvazione e conseguente produzione della sceneggiatura presentata da Adra alla direzione della Spa, sceneggiatura che è l’oggetto della presente nota. La stazione termale Augustus venne saccheggiata dalla popolazione di Briwen e data alle fiamme due settimane dopo la prima trasmissione dello spot a seguito dell’irrimediabile contaminazione delle fonti termali dovuta al versamento di scorie tossiche provenienti dalle centrali di Schwarzschwarz; la distruzione della Spa impedì quindi allo spot di avere la diffusione attesa dalla direzione, di fatto soffocando alla radice qualsiasi possibilità di indagine sulla presunta natura criminale di tale spot (allo stato attuale, un riavvio ovvero un avvio dell’indagine oggi avrebbe lo stesso peso di quelle macchine di Leonardo ritrovate quando erano ormai inutili). Di seguito il testo della sceneggiatura:

(Cassetta postale nera da cui esce una manica nera che copre una mano maschile fin quasi alle nocche. La mano tiene una catena d’oro cui è attaccata una medaglia. Un fiume di uccelli morti. Un tappeto bianco e azzurro, con disegni bavaresi.)

VOCE FUORI CAMPO: Al centro benessere Augustus, antiche forme di guarigione spontanea provocate dai nostri clown sciamani.

(Quattro clown fingono di operarne un quinto legato a terra in mezzo al letame, usando bisturi e seghe da amputazione in gommapiuma.)

PRIMO CLOWN: Via tutto il sangue infetto!

(Con un’enorme siringa giocattolo i quattro clown sciamani succhiano i bulbi oculari e parte del cervello al quinto clown, poi gli piantano in testa un cappello a cono con le orecchie da asino. Primissimo piano del clown martirizzato che cerca di raggiungere le orbite vuote con la punta della lingua, suscitando le risate incontrollate di un pubblico invisibile.)

SECONDO CLOWN: Quello che la mano perde la pancia rende: lasciatevi trasportare dall’antica saggezza bavarese!

(Una mano guantata di bianco finge di intrufolare le dita dentro un ombelico e di estrarne una bacchetta magica. Colpetto di bacchetta magica sulla pancia: non accade nulla. Una mano non guantata (quella del Padrone dell’Ombelico?) percuote la pancia come fosse un tamburo.)

VOCE FUORI CAMPO: (Come in una festosa chiamata alle armi) Clown sciamani!

(Ogni tre colpi sulla pancia, appare un oggetto lordo di umori, prontamente prelevato da otto nani guantati che bisticciano tra loro: confezioni di stelle filanti, un bebè di plastica con tanto di cordone ombelicale; una radiolina; un cuore di bue; anguille; un coltello; il coltello apre un taglio nella pancia e ne fa uscire una testa di mucca.)

TERZO CLOWN: Carne bovina di prima scelta! Solo il meglio per voi! Solo mucche selezionate da altre mucche!

(I quattro sciamani, ciascuno a cavallo di una mucca aggiogata a un grosso stetoscopio di legno, ispezionano una stalla vuota. Gli occhi elettrici della mucca uscita dal ventre del quinto clown mandano tenui bagliori rossi e verdi. I quattro clown sciamani legano mani e piedi del quinto al giogo delle loro mucche, poi lo squartano dirigendosi ciascuno verso un diverso punto cardinale, frustando selvaggiamente la propria bestia. Il rumore delle ossa slogate si mescola a quello di innumerevoli cadaveri di piccioni che rotolano uno sopra l’altro.)

 

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(Continua la trascrizione del radioprogramma I figli del Capitan Visiera, prova dell’accusa n. *** agli atti del processo dei famigliari delle vittime del videogioco NITA™ contro Tomaš Brušek.)

10 giugno. A quanto raccontano gli zingari (ma non c’è una vera storia zingara; nemmeno gli zingari sono qualcosa di preciso – ma in effetti quasi nessuno è qualcosa di preciso [FIGLIA DEL CAPITAN VISIERA: “Giusto” PRIMO FIGLIO DEL C.V.: “Giusto cosa” FIGLIA DEL C.V.: “Nessuno è qualcosa di preciso” PRIMO F.D.C.V.: “Come sarebbe–” FIGLIA DEL C.V.: “Soprattutto lei. Comunque è affascinante questa idea della città degli zingari nascosta in una melodia.” PRIMO F.D.C.V.: “Cioè?” FIGLIA DEL C.V.: “Ricordo che quando sono rimasta “vittima” dell’attentato “FIAT” …(omissis)… SECONDO F.D.C.V.: …(omissis)… FIGLIA DEL C.V.: …(omissis)… SECONDO F.D.C.V.: …(omissis)… PRIMO F.D.C.V.: “Signori, mi vedo costretto a richiamarvi all’ordine, e perché ormai sono ormai le 5.30 antimeridiane e la notte si avvicina inesorabilmente, e perché io, almeno, non voglio restare disoccupato, per non parlare del peggio” FIGLIA DEL C.V.: “Faccio umilmente ammenda e autodafé, e mi cospargo il capo di cenere nonché, laddove necessario, lapilli” SECONDO F.D.C.V.: “Sottoscrivo” PRIMO F.D.C.V.: “Scuse accettate, protocollate e archiviate”] – probabilmente quella che mi sta raccontando il mio violinista – ma perché me la sta raccontando? e perché ho un mio violinista? forse sono anch’io senza saperlo uno zingaro? chi altri sennò potrebbe avere un violinista proprio? forse il mio violinista mi sta riportando alla mia vera famiglia? – è una storia che appartiene solo a questo villaggio, e forse anche la storia delle città zingare più che una storia è un’altra favola che vale solo per il posto in cui ci troviamo (ci trasciniamo) ora; ma se vale per un posto soltanto, non c’è differenza tra favola e storia. Non ho mai sentito niente di simile a quello che mi sta raccontando il mio violinista; che io sappia gli zingari non hanno città) la prima idea per costruire le strade delle città zingare è venuta ad un architetto polacco vissuto secoli fa – un costruttore di ponti, come quasi tutti gli architetti zingari – che durante la bassa marea sulle coste bulgare del mar Nero (nei pressi dell’attuale Sunny Beach) aveva notato alcuni pesci che, rimasti separati dal mare che si era ritirato, saltavano da una pozza d’acqua all’altra fino a tornare tra le onde.

11 giugno. Quello che aveva colpito l’architetto era il fatto che i pesci sembravano avere una capacità quasi soprannaturale di regolare i propri salti, alcuni dei quali coprivano più di due metri, in modo da raggiungere precisamente le poche pozze d’acqua rimaste. Che in qualche modo i pesci avessero memorizzato la conformazione del fondale non era possibile, dato che era sabbioso e perciò continuamente mutevole. Eppure, in qualche modo, dalla cieca pozza in cui si trovavano i pesci riuscivano a imprimere al loro balzo “la corretta direzione e la necessaria contorsione muscolare per raggiungere la prossima cieca pozza viciniore al mare”, così dice il mio violinista, e con formule altrettanto burocratiche e/o incongrue (che io gli perdono sempre, perché so che servono per consolarlo della sua condizione di schiavo) passa a paragonare i balzi nel vuoto di quei pesci agli scatti “presso che quantici” richiesti alla mano del virtuoso in certi passaggi dei Capricci di Paganini. L’architetto zingaro non era riuscito a penetrare il segreto dei pesci, ma aveva pensato che quella poteva essere una buona tecnica per costruire strade che, avendo l’apparenza di mettere semplicemente in comunicazione tra loro i luoghi di una città, facessero anche da fortezza contro chi non era in grado di leggerne e quindi correttamente seguirne le curvature. Pertanto non ha nessuna importanza per quali luoghi ci si ritroverà a passare una volta imboccata una strada zingara, l’unica cosa che conta è l’inizio e il calcolo corretto della curvatura, conclude il mio violinista appoggiando il dito anulare sul bordo del cruscotto e facendolo oscillare (il dito) come per un lento vibrato tardo-romantico.

12 giugno. Il punto del cruscotto in cui di solito il mio violinista fa questo esercizio è tutto levigato, addirittura si è quasi formata una conca liscia a furia di premervi contro i polpastrelli. La macchina del mio violinista, più di ogni altra cosa, tradisce le sue passate (e forse anche attuali, quantunque certamente più saltuarie) e continue frequentazioni con gli zingari. Fiori secchi, musicassette (musicassette! e nessun mangianastri né autoradio), pupazzetti Playmobil® (il mio violinista non ha figli, almeno non che io sappia), un vasetto di fiori con dentro una pianta carnivora mezzo morta, e sul fondo una sottoboscaglia di cartacce, polvere e cibo che in certi angoli pare quasi in procinto di attivarsi in grumi di terra fertile. Sul posacenere, un pezzetto di cartone che ogni volta mi fa stringere il cuore, su cui con un pennarello nero, ogni parola intervallata da un punto come i cartelli dei mendicanti, qualcuno ha scritto:

ALLACCIA·LE·CINTURE·ACCENDI·I·FARI·CONTROLLA·IL·LIVELLO·DELLA·BENZINA·SPEGNI·I·FARI·E·L’AUTORADIO·E·ALZA·I·FINESTRINI·QUANDO·ESCI·DI·QUI.”

 

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Ipotesi 1: Gianni Sherwood è entrato qui per sbaglio e gli hanno mangiato il cervello.

Ipotesi 2: All’inizio faceva solo finta di essere pazzo, poi la finta gli ha mangiato il cervello.

Ipotesi 3: Un videogioco gli ha mangiato il cervello. Non sarebbe il primo. Nessuna delle ipotesi che facciamo è completamente campata in aria. Per ogni ipotesi c’è o c’è stato un malato reale che possiamo ricordare per confermare le verità, cioè che quello che diciamo può succedere.

Ipotesi 4: Indigestione di fichi. Abbiamo anche quello. Può succedere.

(Decisamente divertente. Divertente.)

Ipotesi 5: Gli hanno mangiato il cervello in pescheria. Tutti noi abbiamo un’immagine diversa della pescheria dove gli hanno mangiato il cervello.

Ipotesi 6: I parenti.

Ipotesi 7: Si è mangiato il cervello da solo.

Ipotesi 8: I turisti gli hanno mangiato il cervello.

Ipotesi 9: Alexandre Dumas gli ha mangiato il cervello.

Eccetera. E dopo un po’, qualunque sia l’ipotesi, tutti non fanno che pensare al rumore di un cervello che viene mangiato, sì. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Il rumore di un cervello che viene mangiato. Voglio dire, a prescindere dall’ipotesi.

 

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Quando mi svegliai, il presidente era già lì. Anche se, tutto sommato, quel nostro primo incontro fu piuttosto insignificante, gli orrori che ne seguirono hanno come sbrindellato ciò che accadde realmente quel giorno, quando mi svegliai, perché quasi ogni notte torno a sognare quel primo incontro, e così ormai il ricordo è tutto come impiastricciato dal sogno, come una merda colorata che si è attaccata a tutto. Il luogo può cambiare e non essere più un treno ma una nave, una mongolfiera, una capanna che affonda lentamente nelle sabbie mobili (e allora il presidente sputa sabbia umida e stelle marine al posto delle parole, e sorride con occhi di bambola messicana), il presidente stesso può non essere più il presidente e diventare un bambino pericoloso e taciturno, una vecchia insegnante di geografia, un infermiere, un paggio. Talvolta, io stesso sono un altro, sono una donna, sono un cane, sono un manichino, sono una mucca, sono una lucertola, sono un bulbo oculare di un gatto investito strappato dalla propria orbita. Alcune cose però non cambiano, sono come parole d’ordine per rendermi certo che il sogno riguarda il mio primo incontro con l’architetto, e non altro. Le prime parole che mi disse, per esempio: “Scende a Venezia anche lei?”, o la sua immagine riflessa nel finestrino del treno. Non importa dove ci troviamo nel sogno. Dovunque si sia, finisco sempre per trovare un vetro attraverso cui scorre un paesaggio. Può essere un oblò, una lente d’ingrandimento, un alambicco, una semplice finestra, una tenda magica, uno di quegli strani marchingegni ottici che usavano i pittori, o appunto il finestrino di un treno, il risultato non cambia: attraverso il paesaggio ovvero sopra il paesaggio che scorre dietro al vetro (un fondale marino, collezioni di farfalle o francobolli, corpuscoli unicellulari, cortei, epoche, prospettive e macchinari che si accavallano a velocità vertiginosa) io vedo trasparente e implacabile il corpo del presidente, e non importa chi sia nel sogno, nel vetro lo vedo come è realmente, come la domanda su Venezia è sempre la stessa, questi sono i segnali che mi dicono che non sono ancora libero; naturalmente con “lo vedo come è realmente” intendo dire che lo vedo come quando lo incontrai la prima volta, perché sul serio per non sembrare sfacciato lo esaminai attraverso il riflesso sul vetro del finestrino del treno che andava a Venezia. Volevo esaminarlo. Nel sogno in effetti lui mi appare come esaminato, cioè già esaminato, e il vetro è un vetrino di microscopio. Gli occhi e il mignolo finto quasi luccicano nella penombra del riflesso, lo stratificarsi dei sogni uno sull’altro li ha intensificati, tanto che ormai sembrano arti i bambola, e gli occhi dondolano come gli occhi variopinti di certi pupazzi messicani, mentre il dito talvolta picchietta in modo soprannaturale contro il vetro che lo sta riflettendo, come se ne fosse contenuto, e dopo un po’ si trasforma in un rumore (la sveglia, il mio respiro, qualcuno che mi parla; quest’ultimo caso è il peggiore di tutti, il più terrificante) che mi sveglia. Il presidente (ricordo che la prima volta che vidi il suo biglietto da visita, con quel presidente lasciato a vuoto, avevo pensato ai dittatori dell’America Latina) sembra lui stesso un macchinario o un pupazzo da ventriloqui, e a volte i suoi denti fanno persino un rumore come di nacchere, esattamente come un giocattolo. Anche dopo averlo smascherato grazie al riflesso del vetro, ad aver capito che è di nuovo lui che sto sognando, a volte è come se non sapessi rassegnarmi all’idea che quel bambino, quella vecchia signora, quel servo, quel poliziotto non siano che travestimenti del presidente, ridicoli quelli da donna, volutamente (ma volutamente da chi?) volgari e kitsch, da tedesco dell’est ricco e ubriacone che vuol far ridere gli amici smutandando la moglie in mezzo al salotto. Per esserne certo, devo fissarli intensamente negli occhi, perché so che gli occhi del presidente (parlo del presidente esaminato, non del presidente che ho effettivamente incontrato), se vengono fissati per un tempo sufficiente, iniziano a ballare, tradendolo. Li chiamavo tedeschi di merda, i tedeschi di merda. Quando, nel corso degli anni, si fa sempre lo stesso sogno, si sviluppano delle specie di abitudini che sono come altrettanti uncini che ci avviluppano le viscere con i metri di lenza del sogno. È un movimento terrificante, o forse mi appare terrificante adesso, in prospettiva, dato che non ricordo più quello che pensai la prima volta che vidi gli occhi del presidente architetto; non ricordo quasi più niente di preciso, ormai ho fatto talmente tanti sogni che inizio a dubitare anche dei dettagli sui quali ero più certo, per esempio non sono più tanto sicuro che il presidente indossasse qualcosa di colore rosso primario, violento e effeminato, illuminato quasi dall’interno, come un neon, non lo so più, forse il rosso è semplicemente il colore del cuore quando viene liberato dalla cassa toracica anche se nessuno dice mai “rosso come un cuore”, ma i foulard, i collari, le perle, i sandali, i manici dei pugnali, i turbanti, i taccuini, i fiori, i ragni e i serpenti, tutte le cose di colore rosso primario che nei sogni circondano i diversi presidenti forse non alludono a nulla, voglio dire nulla che riguardi il presidente, forse il rosso primario si è infilato nei miei sogni sul presidente per un puro caso. Per un puro caso. Che razza di frase. Certo il cuore invece non può essere un caso. In nessun caso. Ah. Ah. Il sogno finisce sempre in modo simile, con la raffigurazione di turno del presidente che si infila una mano nella parti basse per tirare fuori l’orologio e dirmi che ora è, solo che non si tratta mai di un orologio (così è andata in realtà, io gli avevo chiesto l’ora solo perché mi aveva attratto la catena d’argento che gli spariva in pancia, e volevo vedere l’orologio): di solito è una specie di serpente di legno, un verme meccanico foderato di budello, un lungo feto sospirante, il suo sospiro pian piano diventa il mio e mi sveglio, e la risata che sembra contorcere il verme come se fosse uno strano giocattolo da usare a carnevale, è in realtà la stridula risata del presidente, che da subito mi aveva ricordato le urla di gioia isterica di una giapponese, così strana mentre esce dal corpo grande e carico d’anni del presidente, dalle spire meccaniche del verme e infine, quando finalmente apro gli occhi pieni di lacrime, dalla mia bocca. Che Dio maledica il presidente per quello che mi ha fatto. In nessun modo avrei potuto fermarlo, perché era già lì quando mi svegliai. Eppure a volte vengo colto dal dubbio atroce di averlo sentito entrare nello scompartimento, di aver in qualche modo capito di essere vicino a qualcosa di pericoloso, come un cane che fiuta il pericolo, lo sanno tutti che i cani fiutano il pericolo, e se avessi obbedito al cane ora non ne saprei nulla, né dell’architetto, né della cassa di latta, né del cuore, nulla. I cani sentono il pericolo, il nostro cane ha salvato la vita di mio padre durante una gita in montagna, si è messo ad abbaiare finché mio padre si è alzato da dov’era seduto e subito dopo la lastra di roccia si è staccata dalla montagna. Ho sempre il terrore di aprire gli occhi quando mi risveglio. Mi sveglio e tengo gli occhi serrati. Temo che aprendoli di colpo mi ritroverei a fissare quelli tremuli e giganteschi del presidente, fragili e taglienti come la porcellana, come quelli delle bambole o degli squali.

 

***

 

E prima di svegliarsi sentiva sempre la sua risata che al restaurarsi della luce si mescolava, infettandoli, ai rumori del traffico, le grida del mercato, i cigolii delle bandiere di ferro come un preistorico canto d’amore: “Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”.

[continua l’11 dicembre]

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