Sulle orme di Walser

Una recensione al libro di Paolo Buzi La passeggiata a ritroso di Robert Walser, edito da Il Foglio clandestino (2020).

di in: De libris

“… le parole sono richiami, non definiscono niente, chiamano qualcosa perché resti con noi (…) lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per orientarci”

(Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989)  

Ispirandosi alla celebre, indimenticabile opera di Robert Walser La passeggiata (1916, in Italia edita da Adelphi), Paolo Buzi, poliedrico narratore, scenografo, poeta, grafico, ci regala un romanzo che costituisce un omaggio allo scrittore svizzero, strutturato secondo nove racconti.

Il motivo conduttore rimane quello del perdersi, per ritrovarsi spettatori con lo sguardo terso del fanciullo, generosamente estatici, tema comune a tutta la produzione di Walser, seguendo, disseminate lungo le pagine, alcune tracce che rimandano, direttamente o allegoricamente, al lavoro dello scrittore elevetico. E che, inevitabilmente, ci ricordano quell’osservare gli spazi proprio di certa produzione di Gianni Celati, da Verso la foce a Narratori delle pianure.

Exempla centrali, nel libro, paiono essere quelli della neve, immagine che rimanda alla scomparsa di Walser, il giorno di Natale del 1956 (“Il mondo che vedo non ha bisogno di altre verità. Il mondo che vedo avrebbe bisogno, semmai, di altra neve”), e del ricordo, tramite fra Buzi e Walser stesso, di cui l’autore ripercorre la passeggiata, nella prima novella, con levità, eppur con attenzione costante, come si legge nel racconto intitolato Tomzack, a “chiunque sia osteggiato, cacciato, malvisto, umiliato”, tratto proprio di tutti i protagonisti delle opere dello scrittore svizzero, come I fratelli Tanner, probabilmente il lavoro che Buzi avverte a sé più prossimo, assieme all’opera che ispira il titolo.

Ne I due boschi, accostandosi esplicitamente ad un tema fondamentale della poetica di Walser, il momento della sosta, della sospensione dal – e del – mondo, dagli accadimenti, dai giudizi, la scrittura ci appare come l’unico antro salvifico, rappresentato in consonanza con il silenzio della natura.

Una scrittura fatta di un lessico piano, dall’aggettivazione sobria, dalle molte paratattiche, rispettosa dei passi, affabili e senza pregiudizio alcuno, del camminatore, che osserva, mai emette sentenze, eppure non scevra di riferimenti altri espliciti, ad Aristotele, Lévinas e Rilke.

Come sottolinea nella postfazione Marco Ercolani, l’ultimo componimento (Il sentimento del mondo) si chiude riconducendoci al primo, apparendo, così, alla nostra lettura, una sorta di omaggio a tutti gli scrittori camminatori, da Celati a Sebald sino a Nooteboom, consapevoli che “lo spirito del camminatore è sempre più in là dei suoi passi, è sul crinale opposto del colle che ha di fronte e che non ha ancora raggiunto, è già tra i vicoli del prossimo, sconosciuto villaggio”, sempre in cerca di “quel sentimento” dal mondo, poiché vi è “sempre qualcosa di cui scrivere o qualcos’altro da descrivere. Bastava un gesto, un rumore, una voce nell’intimo, bastavano due begli occhi e la mano tornava alla penna, la penna sul foglio”.