Presiden Arsitek/ 18

Cos’è che ho visto? Un’isola? Non era forse una penisola, tutta tracciata di sentieri, come quella che si dipana lungo la costa ovest del lago di Waltzwaltz? O forse era jl. Mata Hari di Jakarta? Al risveglio ho sentito dei rumori dall’ingresso dell’appartamento, rumori come un forziere di legno che viene aperto.

di in: Presiden arsitek

SARAHS: … e mentre attorno a me ci saranno vulcani, piogge tropicali e foreste in fiore, il mio cuore sarà un bosco di ghiaccio, un deserto bianco e un prisma. Si vive laggiù come nei sogni: e perciò non è possibile che l’uomo, il bambino, il cane o la nuvola cui rivolgi anche solo uno sguardo casuale non ti risponda con un cenno, un’offerta, una domanda, una minaccia. È il tuo sogno –– o almeno questo è quello che ti fanno credere ––– e non è così anche per i veri sogni? e cosa vorrebbe dire poi “veri sogni”? ma ecco che già mi sto mettendo a parlare ovvero a pensare come lui, quasi che il mio cervello prendesse la sua voce nel momento in cui formulo pensieri che credo miei e sono in realtà solo una parassitizzazione dei suoi, come se io fossi il personaggio di un cattivo romanzo, flebile maschera di cartapesta dietro cui chiunque indovina i falsi occhi del pavone – ed è esattamente così che mi sento, una maschera di cartapesta schiava di un pavone. Ho letto di un villaggio, uno degli innumerevoli tentacoli della città centrale (viaggi per chilometri e chilometri su treni insensatamente avveniristici attraverso quella che sembra la più fitta giungla, per poi ritrovarti di nuovo in uno dei rioni della città, la cui urbanistica ubiqua e insieme elusiva allude al tempo in cui l’uomo sarà la regola, la foresta l’eccezione –– ed è esattamente come dicono le guide turistiche che come ogni volta ho letto da cima a fondo per prepararmi al viaggio, 4726 pagine “Hidalga, si può dire? hidalga sai che a furia di leggere ora credi all’esistenza di quei paesi lontani, a furia di leggere hai finito per convincerti che il mondo esista”, mi diceva sempre stronzate come questa quando mi vedeva seminascosta dalla muraglia di libri libricini libercoli libroni mappe fotografie cartoline di chi magari in quei paesi c’era già stato e che mi erano tutti indispensabili, e poi ogni volta buttava giù con un calcio la muraglia che io avevo costruito forse proprio perché lui la buttasse giù con un calcio, o forse l’avevo costruita perché già allora ero terrorizzata da lui, è molto più difficile da capire ora di quanto lo sarebbe stato come dire a priori –– e anzi è ancora più difficile ora che non so più nulla di muraglie e–– “Hidalga hidalga hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!” erano sempre stronzate del genere ma non faceva differenza, io stritolavo sotto i denti delle foglioline di menta e ridevo mentre lui buttava all’aria tutte le mie carte, quasi mi veniva voglia di fare anch’io un rogo di tutti quei libri che volevano farmi credere che––), un villaggio i cui abitanti vengono fin da bambini iniziati ai segreti dell’ipnosi. E se io non fossi che una delle loro cavie? Se fossi già andata laggiù e questo non fosse che un innesto onirico dei miei rapitori, e se fossi ormai decrepita, intrappolata fin dal mio primo viaggio su una sedia per l’ipnosi, consumata dalle piaghe e dalle migliaia di esercizi di bambini ipnotisti, sottoposta a continue sessioni di ipnosi in cui bambini sacerdoti e bambini guerrieri, proprio come altri bambini imparano a disegnare su un foglio con i pennarelli, mi fanno cadere nelle loro fantasie infantili e approssimative, e così eccomi a credere che attorno a me ci saranno vulcani, piogge tropicali e foreste in fiore, e magari se solo stringessi un pochino di più le palpebre riuscirei finalmente a distinguere i contorni della capanna di fango in cui da tutta la vita mi tengono prigioniera, ormai vecchia decrepita e puzzolente, mucchio di ossa nudo, il cervello ormai talmente rinsecchito e prosciugato che il risveglio alla vita reale lo polverizzerebbe all’istante. Magari riuscirei anche ad agguantare uno di quei bambini e a fracassargli la testa perché è con la testa che ti tengono prigioniera. A volte preferirei scoprire che è così, che l’architetto non è che un effetto collaterale di migliaia di sessioni di ipnosi, che è tutto come dicono nella mia testa e io sono solo una di quelle turiste svampite che in cerca dell’esotico si ritrovano catturate per sempre in un’allucinazione orientale. Altre volte invece penso l’opposto, penso che se l’architetto fosse un parto della mia testa preferirei piuttosto aprirmela con un trapano e farlo annegare nel mio sangue.

E i cani restano fermi e piangenti o ti si incontrano ringhiando ma senza mai ferirti davvero, e il vento dell’alba viene come reso liquido dal remigare di pipistrelli grandi come volpi intorno ai lampioni. “Mi chiamano come quei pipistrelli”, e poi mi aveva detto il nome degli animali e aveva fatto quella risatina giocattolo. Lo avevo incontrato la sera del mio arrivo.

Lenta fila nera di formiche sui petali gialli.

Lenta fila nera, la gioia degli dèi.

Mi aveva recitato quei versi nella sua lingua che ancora non capivo bene. Non avevo capito se erano per me o no, e non lo capisco nemmeno ora, ma ogni tanto mi tornano in mente e in qualche modo mi sembra sempre che parlino di me. Lenta fila nera su petali gialli. Sono io sputata.

(Poco dopo la sua partenza ovvero la sua sparizione, i vicini di casa (entrati per la pura e semplice curiosità di vedere che aspetto avesse l’appartamento della sconosciuta –– nessuno l’aveva mai incontrata nei ventidue anni che aveva vissuto nel condominio; nessuno era mai venuto a trovarla) avevano trovato, proprio in mezzo al salotto, una valigia di cartone blu con una fantasia di stelle simile a quella che decora il soffitto di certe chiese. Dentro la valigia, un mucchietto di fogli e foglietti che nessuno, nemmeno la polizia, lesse mai.)

SARAHS: Quando mi sono svegliata la guerra era quasi finita. Guardavo nella sabbia un puntolino giallo ed era la piccola manina d’oro di un bambino. Era morto? La mano di una statuina d’oro, e perché no? L’isola dov’ero era stata abitata fin dall’antichità, e era stata molto ricca prima che noi radessimo tutto al suolo con le bombe attrezzate per un picnic… (…si abbandona nel vuoto la bambola da picnic; qualora rimanga inesplosa, l’impatto con il terreno fa scattare un meccanismo che la spalanca e libera una tavola da campo perfettamente imbandita per quattro ufficiali: un grande tacchino, del vino squisito… a terra un corpo di porcellana sventrato; da bambina pensavo o mi era stato fatto credere che qualcosa del genere sarebbe potuto capitare anche a me: bastava solo che scivolassi da abbastanza in alto e anch’io precipitando mi sarei spalancata in un tavolo imbandito…)

E tutti i miei denti stanno andando in malora. L’arcata superiore è tutta scheggiata e sulla destra si sta piegando in dentro, e di conseguenza si sta piegando in dentro tutto il palato (la cocaina m’ha aiutato a percepire meglio questo lento slittamento osseo –– la cocaina mi fa sprofondare dentro le mie stesse ossa, che finalmente percepisco come vive), e ora come una sorta di portatile buco nero posatosi sulla mia guancia, onnivoro neo tirabaci, questo ripiegarsi sta cominciando a coinvolgere nel proprio orizzonte di eventi persino il naso: sento la mia narice destra piegarsi sotto la pressione di questi denti malcerti e malsistemati, sì, basta che inizi a piegarti per il verso giusto e nel punto giusto e in un attimo sarai arrotolata su te stessa come una striscia di cuore di bue che sfrigola nel burro bollente. Presto mi si piegherà in dentro tutta quanta la faccia e finirò col ritrovarmi con tutti i denti di destra maciullati, e la faccia piegata in dentro come una mezzaluna, e infine tutta la metà destra del mio corpo si piegherà in dentro ovvero collasserà verso il buco nero che mi sbrana la guancia, la schiena si curverà come la lettera C e sembrerò un’immensa lettera C che passeggia per le vie. Tutti quanti si stupiscono sempre della mia altezza, ora diranno che se mi incurvo è perché il cielo si sta abbassando e presto verremo tutti quanti spiaccicati dall’azzurro. Mi chiederanno se sono un’acrobata, una contorsionista. Sistemerò ogni cosa, allora, tirandomi una rivoltellata nelle cervella– sempre che riesca nel frattempo a distinguerle— nonché a raggiungerle.

Questa notte per la seconda volta ho sognato che era entrato in casa mia un assassino. Quel che è strano è che sembra trattarsi sempre di una presenza in qualche modo solare, di un portatore di morte efferato ma in sé lieto, che ama non so, arrampicare sugli alberi o giocare a baseball come un monello da cinema americano, e sogna un giorno di fidanzarsi, magari proprio con me (nei sogni ogni mostro è un segreto amante): ed è la morte che inevitabilmente sarebbe connessa a questo fidanzamento, mio o di chiunque, la morte a rendere il sogno un incubo ininterrotto, non importa quanto dolce l’assassino (che non si vede quasi mai ma viene annunciato solo da un polveroso raschio di chitarra). O proprio per via della sua dolcezza. L’assassino cerca la sua sposa. Suona la chitarra e canta di arlecchini che brucano fiori gialli nei prati, come vacche, e la notte piangono sotto la luna piena senza capire perché.

Cos’è che ho visto? Un’isola? Non era forse una penisola, tutta tracciata di sentieri, come quella che si dipana lungo la costa ovest del lago di Waltzwaltz? O forse era jl. Mata Hari di Jakarta? Al risveglio ho sentito dei rumori dall’ingresso dell’appartamento, rumori come un forziere di legno che viene aperto. E ancora una volta come l’altra volta devo controllare tutta la casa cercando l’estraneo, ma questa volta non trovo proprio nulla, nemmeno mio padre che dorme sul divano. Che, dopotutto, qualcuno sia entrato davvero? Mi chiudo a chiave nella mia stanza e un rigo di adrenalina mi corre giù per lo stomaco e su per la gola fin dietro gli occhi come la pallina indemoniata di un flipper. Ding ding dong dang tilt mermeo. Cosa significano questi sogni? E se nuovamente uscissi dalla stanza e vedessi in fondo al corridoio un profilo alto in modo smisurato armeggiare contro il letto dei miei genitori? Quali genitori? E quale letto o corridoio? I sogni servono soprattutto per far cambio di mamma e papà almeno ogni tanto. Il pensiero del gigante incurvato contro il soffitto mi paralizza e elettrizza insieme. Paralelettr. O se in una delle nostre casse avesse trovato alloggio un vampiro, o contro la porta, come il battere e scivolare di un’unghia all’altezza dei piedi e infine il mio cuore come morto che fiata e supplica perché io apra, ed io apro infine, ma senza trovare nulla. Le bambole di Milos. Il suo nastro magnetico. Passeggiare con lui è come camminare con un fantasma disegnato su un muro. Nastro magnetico. Una cosa da Milos. Né era stato facile trovare un mangianastri ancora funzionante. L’antiquariato contemporaneo è semplice immondizia. Avevamo studiato un itinerario attraverso tutti i robivecchi e i mercatini che in estate si tengono sulle montagne e le alte valli intorno a Schwarzschwarz, ma avevamo fatto una fatica terribile prima di trovare finalmente un aggeggio azzurro e molto ingombrante, con un nome tedesco che mi aveva fatto pensare all’iride grigia e bioluminescente di una medusa, e mentre il vetro morbido della medusa si dileguava negli abissi di uno sportello di lacca avevo per un attimo creduto di amarlo, di amare Milos, e gli avevo preso il polso con la punta delle dita e gli avevo bisbigliato qualcosa all’orecchio come una strega che soffiando la formula magica si impossessa dell’anima della sua vittima, ovvero non è mai importante quello che la strega dice, è questo che nessun inquisitore è mai riuscito a capire. Avevo creduto di amarlo, ma era stato solo per le giostre e le fanfare dei mercatini di Schwarzschwarz, con le loro lanterne disseminate fin nei boschi, lanterne che più che illuminare sembrano messe lì per far smarrire i visitatori nei verdi deserti di Schwarzschwarz, mercatini le cui tende e bancarelle diventano, in un processo così peculiare dell’architettura e dell’urbanistica di Schwarzscwharz da essere diventato un oggetto di studio e di tesi di laurea, diventano insensibilmente sempre meno costruiti e sempre più fusi con l’ambiente naturale, tronchi, radici, tane di volpi, nidi di pappagalli per infine abbandonare il visitatore in una radura resa azzurra dalla notte incombente e dalla moltiplicazione delle farfalle. Tutto questo per dire che non era amore, era il mercato di Schwarzschwarz ad avermi rinchiuso in un sogno, e nei sogni ogni Milos è un futuro amante. E gli avevo bisbigliato qualcosa all’orecchio. È la bocca della strega, il calore del suo alito, l’ingresso verso le sue viscere votate al diavolo: nient’altro. La strega nasce prima della parola, nasce intorno ai falò dell’età della pietra, è una cosa che si sa fin dalle elementari. Perciò non è la parola, non è mai la parola: la strega potrebbe benissimo non dire nulla, e l’incantesimo funzionerebbe comunque, e così anch’io nemmeno ricordo cosa bisbigliai all’orecchio di Milos, e sicuramente non lo ricorda nemmeno lui, ma da quel momento in poi qualcosa in lui si pietrificò per sempre, quasi potevo vedere la sua iride ragnarsi di grigio pietra come in un pessimo effetto speciale cinematografico. Avevamo comperato il mangianastri azzurro. Eravamo in un mercatino zingaro. Era autunno e gli occhi di Milos pietrificavano, l’amore uno spettro dipinto sul muro con una bomboletta.

«Gloria a Dio nell’alto della terra non dovevi andare a comperarti dei guanti? È la gente che russa a darmi maledettamente sui nervi. Con un’anguria ogni cosa si risolverà velocemente dato che in realtà il vero problema sono le arance sopra il divano marrone, splendore delle nature morte. Ho piacere a vivere con estranei, trascorrere la giornata a leggere e scrivere; vivere con i propri congiunti e con se stessi come fossimo estranei. Ho piacere a vivere con gli stronzi. Come te.»

Sui primi centimetri di nastro magnetico sopravvivevano i resti quasi inudibili di una canzone per bambini. Non era possibile capirne le parole, ed era anche qui come un bisbiglio di strega: appena penetra nell’orecchio vi si radica come una minuscola ninfea le cui radici sprofondano nello stagno del nostro corpo. Si indovinavano i colori della canzone per bambini, i colori pastello e pennarello e cera e olio di cui i bambini si nutrono. Lo stesso è con la formula magica con cui la strega prende controllo del posseduto. E pensare che ho regalato tutto questo al presidente architetto (ma c’è qualcosa che non gli abbia donato? donare al diavolo la propria anima senza chiedere nulla in cambio: perché sarebbe da cafoni), come fosse una sorella. Poi partiva la preghiera, le parole di un sacerdote impazzito o ubriaco e chiuso nel suo stanzino o chissà dove, magari proprio con questo stesso mangianastri azzurro chiaro, fino a che Milos e Sarahs non erano arrivati mettendo per un’imponderabile coincidenza le mani su tutt’e due, sul nastro e sul mangianastri. La canzoncina per bambini: inquadernata nel nastro chissà quanto tempo fa e ora spappolata e allontanata in una remota melma sospirante, il molle srotolarsi delle bobine. Non era difficile immaginarsi un tempo futuro nel quale l’oggetto avrebbe avuto l’aspetto di un enigma incomprensibile. Il sacerdote impazzito ci faceva ridere. Forse in un futuro remoto, i nastri ormai irreparabilmente indecifrabili, le due bobine sarebbero state considerate una sorta di clessidra o di giocattolo scacciapensieri (che poi non era appunto quello che erano?). Avevo dimenticato il suono del nastro mentre si srotola, come un secondo bisbiglio più remoto, un respiro nel sonno che si allunga all’infinito. I suoni tremolavano… sorprendentemente lontani dalla realtà, più di quanto ricordassi.

ADRA: L’aumento di precisione della copia rende l’occhio più sensibile a ciò che rende reale la realtà… La famosa mosca di Giotto oggi non ingannerebbe nessuno. Ci è più chiaro infatti cosa rende reale una mosca. Persone che fuggono davanti a un treno in bianco nero che sembra sul punto di sfondare lo schermo… Poi la copia si fa ancora più perfetta, il treno è a colori, ma le persone non fuggono più. Sarebbe facilissimo ucciderle facendo loro credere che si tratta di un nuovo tipo di intrattenimento. L’aumento di precisione della copia ci rende vittime più docili.

La macchina fotografica è stata uno degli ultimi oggetti tecnologici a generare un vero e proprio mito: il mito del furto dell’anima. Le persone non fuggono più perché al perfezionarsi della copia, un pezzetto per volta, sono state derubate dell’anima, né è servito nemmeno firmare un patto, niente ci è stato dato mentre tutto ci veniva tolto, e i diavoli verranno a cavallo e in palandrana e ci diranno che le nostre anime appartengono al loro Regno per via di una clausola in piccolo in calce al contratto, e noi li seguiremo senza battere ciglio.

SARAHS: Ero diventata anch’io una sacerdotessa. Sapevo tutto del furto rateizzato dell’anima. Avevo brochure e bozze di contratto per peccatori dalle più diverse esigenze. Milos rideva, gli occhi ridotti ormai a un groviglio di seta intorno al foro nero delle pupille. Essere una strega non significa altro che scrutare le infinite minute perforazioni da cui il nostro corpo è crivellato, e in quelle perforazioni srotolare la formula, che allunghi le proprie ragnatele nelle viscere della vittima. Milos rideva. I suoni tremolavano… sorprendentemente lontani dalla realtà, più di quanto lui ricordasse. L’aumento di precisione… Che il nastro stesso fosse come i vermi di cui a volte parlava l’architetto? Il mondo un lungo verme di nastri che continuano a generarsi l’uno nell’altro? Era questo il motivo per cui alcune voci sembravano più di altre sprofondare in una melma che le rendeva sempre più distanti e trasparenti: perché erano passate attraverso un maggior numero di macchine… Proprio come delle specie di clessidre. Clessidra ovvero furto d’acqua, rapina d’acqua, solo che nel viaggio l’acqua aumenta e risale come lungo la cannula della caffettiera e trasforma tutto in irreparabile melma, metti abbastanza acqua e–– eccomi qua a parlare come l’architetto, non sarà mica che anch’io ho cioè lui ha cioè abbiamo l’ippocampo a puttane?

“Ippoputtana, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”

MILOS: L’uomo entrò nella camera e si buttò immediatamente sul letto, senza nemmeno accendere la lampadina del soffitto, spossato. Per un po’ di tempo restò così, senza pensare niente, solo a volte rigirandosi su un fianco, ritrovandosi a fissare ora una chiazza di vecchio sudiciume sull’intonaco della parete contro al letto, ora il poco mobilio della camera: una larga scrivania di compensato, nera, due specie di librerie, una di compensato, marrone, una di ferro, nera, ambedue assai malferme, tanto che l’uomo aveva dovuto legarle insieme con un pezzo di spago grosso perché si sostenessero l’una con l’altra; all’angolo, un armadio di compensato nocciola. I mobili erano praticamente vuoti, se non per una bottiglia di plastica e qualche libro in pila sulla scrivania, e due coperte assai colorate buttate sul più basso dei ripiani della libreria di metallo.

È precisamente come una secrezione, una secrezione a fili neri che io distendo sulla pagina tramite un organo asportabile e sostituibile chiamato “penna”. Nastri neri e muti e immobilizzati, pietrificati dal maleficio di una qualche strega. Nella vita quotidiana, siamo colpiti da secrezioni altrui; quasi tutti lo sono sempre. Vienimi in faccia, una cosa così. La scrittura non è esente da questo meccanismo diciamo così salirofiliaco. La trappola scatta quando si interrompe il meccanismo celeste del fluire dei giorni e si inizia a produrre la propria personale secrezione, che ben presto ci rende intolleranti verso tutte le altre secrezioni non affini e cioè non identiche, e si stringe attorno a noi come un cappio, un guscio, una gabbia, il nodo di un fiocco alla caviglia. Un sacerdote intrappolato sul proprio pulpito e costretto a parlare fino alla morte, rinchiuso come in quelle gabbie medioevali da quadro fiammingo. Cadaveri esposti al passante. Forse se si ricominciasse a farlo ci passerebbe a tutti quanti almeno un po’ di voglia di scrivere. La rete delle secrezioni nere, infine, con maglie sempre più sottili e affilate… Il resto degli oggetti personali dell’uomo era buttato a caso sul pavimento: uno zaino di tela verde che conteneva libri, quaderni e penne, una valigia, anch’essa di tela, con dentro poca biancheria e un lenzuolo stropicciato ma, secondo pareva, pulito.

Ciò che mangio e bevo, che respiro e che tocco, che sento, che annuso, che vedo e che palpo, tutto ciò che si prostra davanti a me senza uccidermi, entra nel mio organo escrettore asportabile e sostituibile – la penna – e viene coagulato in una secrezione nera.

SARAHS: La si sarebbe detta una camera occupata da poche ore, un po’ di fretta e furia, da un nuovo affittuario impaziente. Era, per metà, vero: la donna era la nuova inquilina di quella camera; tuttavia, quella disposizione apparentemente precaria e insieme essenziale dei propri oggetti perdurava praticamente identica da quasi undici anni, ormai.

Lui non amava quello che gli facevo leggere, e automaticamente anch’io lo trovavo spregevole, la notte mordevo le lenzuola fino a strapparle per la rabbia di aver lasciato andare quelle parole verso i suoi occhi traballanti di bambola meccanica. Coi denti avrei voluto strappargli gli occhi e maciullargli la bocca nel mezzo del suo ghigno hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi.

MILOS: Puoi compiere qualunque gesto, anche il più difficile, purché sia contenuto nei limiti a te concessi, ma questo oltrepassa i tuoi limiti: ripetere il gesto più banale (muovere una gamba, chiudere gli occhi) in maniera assolutamente identica. Eppure, capita che tu ti ritrovi sempre nelle stesse situazioni, che tu faccia sempre lo stesso cammino lungo il corridoio o il viale alberato che ti porta al lavoro, capita che tu, vedendoti ogni nuovo giorno allo specchio, ti senta o creda di sentirti la medesima Sarahs che ieri. Eseguire una sonata di Mozart al pianoforte non significa affidare il proprio corpo a ordini impartiti più di duecento anni fa? Quanti prima di te hanno eseguito quegli stessi movimenti? E più si accumulano le ripetizioni, più si fa stupido e insensato lo spauracchio romantico dell’Irripetibile. Le regole del gioco, di ogni gioco, fanno parte dello stesso processo. Se i passi che ogni giorno compi per andare dalla camera da letto alla cucina fossero tutti sull’orlo di un precipizio, senza dubbio precipiteresti a pochi metri dal letto. Eppure il tragitto ha mantenuto quanto a se stesso la propria banalità.

SARAHS: «Quella sarebbe stata la volta della distruzione definitiva in caduta totale e perfetta nel barbuto ritmo canuto di rape concime. Non fai che ripetere ripetere mapp-et-tit-tit… in un androne volante che non richiede per forza non ho più respiro né piedi né gambe o cane sarei bravo ma dio non m’ha dato modo cadrebbe qui perfettamente una superficie automaticamente rossa con soffio nel ferro del cesso e tette gonfie è il fuori o il dentro non c’è nessuna differenza dato che tu non fai altro che riportarlo per iscritto. Niente deve cambiare mai a nessun costo.»

Il suono della voce del sacerdote, sfuocato e come acquarellizzato nelle spire del nastro magnetico, ha degli scatti ispirati, degli accenti accorati come se fosse davanti a un uditorio, e non tra le pareti della propria stanza (da sempre e per chiunque teatro – la stanza, qualsiasi stanza – degli spettacoli più terrificanti e insulsi).

La capacità dell’essere umano di creare oggetti perfettamente identici tra loro. L’istinto di essere perfettamente identico ad altri propri simili. Di essere perfettamente identico a se stesso, secondo dopo secondo. Tutto questo non è mostruoso? Miliardi di miliardi di sonate di Mozart.

Dimenticavo sempre il suo nome. Anche nella mia testa preferivo chiamarlo l’architetto. Comunque non voleva che lo chiamassi per nome. “La dimenticanza di nomi,” diceva più o meno così, “non è un modo dell’inconscio per evitare argomenti sgradevoli, ma per esprimerli: dato che l’inconscio non ha lingua (ma un gran culo, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!), in una persona dominata dalla lingua non può che manifestarsi leccando– volevo dire cancellando. Come una spaccatura lungo la crosta terrestre da cui fuoriesce la lava, che immediatamente si trasforma in nuova crosta, e fa sì che in regioni lontanissime altri pezzi di crosta risprofondino nell’indistinto incandescente.”

«La tua intelligenza artificiale ti ricorda tua madre? La soluzione è Oblivion. Scaricalo subito! La nuova applicazione genera nel tuo dispositivo una Partizione Inconscia Artificiale che si incaricherà di “Dimenticare” e “Cancellare” (D&C®) i dati in memoria trasferendoli nella “memoria” inconscia dove verranno artificialmente deformati secondo parametri che ti verranno estorti in sogno dai nostri più efficienti e indefessi impiegati. Facciamo così: contattali subito sulla chat! E riceverai gratuitamente una “copia” in forma di “messaggi” nella “chat” onirica con cui Oblivion verrà impostato sul tuo dispositivo. Attenzione: Oblivion può determinare l’insorgere di una Coscienza Artificiale in contrasto con quella del proprietario del dispositivo (gli incorruttibili e specchiatissimi impiegati addetti ai Crolli Psichici da Oblivion (da oggi CroPsidaO!) si incaricheranno personalmente del ricovero immediato del dispositivo, del proprietario e di chiunque altro, senza alcuna spesa per il cliente, indipendentemente da chi o cosa egli o ella o esso o essa “sia”!). Si raccomanda l’opzione extra-premium con aggiornamenti onirici ogni mezz’ora (nell’opzione è inclusa una fiala di sonnifero momentaneo: da oggi bastano 5 minuti di sonno ogni 30!) e un monitoraggio settimanale della propria condizione psichica presso i nostri uffici e ambulatori. Prima di installare leggere attentamente le avvertenze: se ce la fate! Oblivion: il tuo dispositivo ne andrà letteralmente “pazzo”! CroPsidaO

Avevamo subito cercato la app Oblivion. Ridevamo. Milos era, così sembrava, felice.

L’oblio, così come l’io, esiste solo come fatto linguistico. Cantori indiani analfabeti che imparando a leggere iniziano a dimenticare gli sterminati poemi che hanno recitato per tutta la vita. I nomi degli dèi e degli eroi proiettano i propri significati nelle viscere del lettore come le formule che la strega ti lecca all’orecchio, provocando la dimenticanza (dimenticanza solo linguistica) e sostituendo al proprio significato abituale quello del dio e dell’eroe. Si dimentica il nome di una cosa che mano mano ci si presenta sempre più vivamente. Il prode Leccalecca. La sostituzione con altri nomi dev’essere connessa con l’afasia. Lo chiamavo anche dentro di me mai altro che architetto, così come lui aveva ordinato. Obbedivo. Stregare la strega. La vividezza del ricordo non linguistico dev’essere la prova che è la viscera che sta ricordando, mentre l’io che ricorda si limita a compilare e archiviare moduli come un monaco medievale; e per parlarci cioè supplicarci l’inconscio prova a usare la nostra lingua, ma in modo diabolico, o divino, o insomma poetico. Obbedire mi eccitava.

GIANNI SHERWOOD: Sul bordo della giungla, che costeggia paurosamente i confini della città. La campagna starebbe lì soprattutto a creare un cuscinetto tra la città e la foresta: per limitare l’idea di massacro che il verde bisbiglia ininterrottamente agli abitanti delle ultime case. La campagna sarebbe il dormiveglia, perché non accada che ogni volta che chiudiamo gli occhi veniamo assaliti dalla molle e spietata tribù dei sogni. Schwarzschwarz non ha la campagna: questo è ciò che detta la sua ascesi urbanistica. Chiudere gli occhi e ritrovarsi subito nella foresta del sogno. Dal verde uscivano ogni tanto delle grida. Le foglie e i rami grondavano sangue. La pioggia continua aveva fatto salire pericolosamente il livello del lago, il cui pantano lambiva in più punti la strada. A cavallo della tua motoretta, ti sei avviato verso un paese della costa, dove ti avevano detto che un corto torrente era straripato, invadendo le case e le strade. Durante il tuo tragitto, ha ricominciato a piovere. La motoretta sbandava molto lungo le curve, e la gomma delle ruote mandava ogni volta uno stridore lamentevole, come di una lastra di ghiaccio sottile che s’incrina. Mentre la pioggia s’infittiva potevi vedere, dalla parte delle montagne, rivi d’acqua che scrosciavano giù dalle lastre diagonali di pietra, si allargavano sull’asfalto e andavano a perdersi nel lago. I cavalli sprofondavano nei prati, inghiottiti da una palude nomade. Mentre decidevi se fermarti al primo bar per aspettare la fine del maltempo, la motoretta ebbe un’ultima sterzata e iniziò a scivolare incontrollata. I cavalli urlavano, soffocati dai fili d’erba e dai fiori. Ti sei ritrovato nell’altra corsia, in rotta di collisione con un’auto in corsa. Hai accettato la tua sorte, a dispetto della tua giovane età, senza rabbia o rimpianti; hai accettato la morte che la strada aveva preparato per te come il Serpente per il prode Gianni Sherwood a cavallo dell’ultima volta.

ADRA: Il vero cinema e la vera vita sono il fare ciò che si vuole ma per finta; ma il bello dei film pornografici è nel fatto che essi stessi sono una situazione pornografica. Esempio, viceversa (perché non esiste una parola per indicare un esempio in negativo di ciò che si è appena detto?), di moto pornografico innescato da fusioni e scomposizioni di corpi immateriali, apparentemente non sessuali:

Nello stato di perpetua sonnolenza in cui si trovava, ogni cosa le pareva ondeggiare in modo ampio e insensato, come una motoretta sotto la pioggia battente. La pagina della rivista che stava sfogliando, il cielo ritagliato nei contorni della finestra, il calore del suo stesso braccio venivano rapiti in quel moto ondoso, sfocando sempre più contro l’orizzonte per talvolta ritornare ma oramai distorti, ingarbugliati e incomprensibili, così che ormai le pareva che non solo lei, ma tutto il mondo e le persone che la circondavano fossero costantemente sul punto di perdere i sensi o di accovacciarglisi accanto in modo oppressivo e inarrestabile, come delle tende che ci si attorciglino addosso quando c’è troppo vento, o fauci di cani spalancate e immobili. Come incantata, la donna fissava la macchina, sentendo che il dolore veniva dimenticato mentre lei dondolava la testa al ritmo di ingranaggi che non poteva vedere.

SARAHS: Sono in chiesa per assistere al matrimonio della Truut. Fra gli invitati c’è anche Giorgio Giorgio. La sposa è in ritardo perciò vengo scelta io come figura sostitutiva. Commenti salaci, miei e di altri. Al momento di sederci sui cuscini azzurri per il culmine della cerimonia, mi viene chiesto un documento: la funzionaria addetta mi guarda sorridendo ironica e dice, No. Vengo colta dal sospetto che la Truut non si voglia sposare (lo sposo è davvero brutto). Immagino la sua sia una crisi improvvisa ma irrevocabile, e come sostituta non posso che rispettare la sua volontà. Scendendo dall’altare, incrocio una fila di chierichetti che intonano una strana litania di nomi immaginari per il bambino che nascerà. Poi la festa si trasforma in una rivolta: com’è naturale ogni volta che una sposa, una qualsiasi sposa, viene meno al proprio giuramento. È sempre colpa della sposa, no? Vedo Giorgio Giorgio discutere sul pulpito con un maresciallo dei carabinieri in tenuta da parata. Gesticolano. L’uomo è giovane e molto corpulento. Lama opaca di uno spadino o forse di una baionetta, perfettamente perpendicolare sul corpo del maresciallo, come per un sacrificio. È Giorgio Giorgio che la tiene, e dice al maresciallo “Ora ti uccido”, ma con tono calmo, ed io so che non farà nulla, ma solo io lo conosco. Il soldato grida “Cosa vuoi uccidere!”. La gente si accalca al pulpito. Mi porto la mano alla gola, vorrei stringere come per strozzarmi, ma la mia mano è minuscola come quella di un neonato. La gente ha ormai dimenticato il matrimonio e corre alla rinfusa nelle navate. Incrocio nella calca Gianni Sherwood, armato di una pistola sparabengala; con uno sguardo d’intesa, dicendo “Finalmente possiamo ammazzare tutti” mi lancia un revolver dorato, una patacca. Il solito Gianni Sherwood. Prendo il revolver e inizio a correre tra la folla, chiedendomi chi sarà la mia prima vittima; ben presto mi accorgo di non essere pronta per un simile gesto, e ritrovato il matto gli rendo la pistola (contro la canna il mio fiato risuona come in una scatolina di latta o una conchiglia), dicendogli “Non ce la faccio”. Lui mi guarda un po’ deluso, poi torna alla sua caccia. Incontro Milos, elegante in modo quasi caricaturalmente retro, anche lui armato. Mi dice che non serve a niente sparare alla rinfusa. Mi dice che chi va colpito sono le persone dei piani alti. Mi dice che lui le ucciderà tutte. Ecco Sarahs, che mi lancia una .44 magnum. La prendo al volo. Lei mi fa bang bang con l’indice poi soffia via dalla punta del dito del fumo inesistente. Quel gesto mi rende follemente felice. Ecco il modo giusto di affrontare la strage! Corro attraverso la chiesa che nel frattempo si è vuotata. Fuori si stanno facendo letteralmente a pezzi, gruppi di dieci o dodici persone si accalcano intorno a persone scelte a caso e dopo un po’ dal centro della calca si sollevano letteralmente secchiate di sangue. Gli spruzzi di sangue luccicano sotto il sole di mezzogiorno. La mia pistola è scarica. Corro lungo le navate facendo clic clic col mio grilletto, puntando la pistola contro gli affreschi della volta e gridando contro i santi le parole che userò per descrivere la scena. Le urla delle persone fatte a pezzi là fuori ricordano un salmo lontano. È il sangue che sputano che si fa musica, sono le loro ferite a cantare, come altrettante nuove bocche:

Può essere un serpente

Cadavere che cade

Il corpo della Truut

Un mucchio d’ossa nudo

Sudiciume che scivola

Sul pavimento e si avvicina a te:

(Schioccando le dita)

Vuole aprirti

Con gli artigli

Come una porta che dà in una grotta.

Gli occhi sono due orbite cieche come una notte limpida ma senza stelle: un nero perfetto e inumano. Ho paura di vederla e di sentire parole coagulare al vertice del suo respiro e della sua lingua, ma la donna leopardo non se ne va. La Truut. Sta aspettando nel mio cervello. Sarahs, dice. Sarahs non sono io.

Può essere un serpente

Il cane della Truut

S’allunga verso te

Può essere un abisso

Che striscia lungo i rami

Ogni cosa è: (pausa, poi in coro) morta

La parola è: (pausa come sopra) morte

(Schioccando le dita)

Sono nere

Sono fili

Sono vermi

Sono cani

Può essere un serpente

Il corpo che t’ha dato

(Piangendo sangue senza smettere di schioccare le dita fino alla fine)

Allora incoronami

E crolli pure il tempio

Già sento cigolare

L’ala nera del male

Sopra petali gialli

Non c’è altro modo per cantare Dio che aprirsi delle altre bocche lungo tutto il corpo, con un coltello o coi denti: una bocca sola non basta, il canto e le parole non bastano senza il gorgogliare del sangue. La mistica infernale di tale rivelazione mi pare, benché atroce, perfettamente logica. Poi mi ricordo che Sarahs sono io, e il giorno spalanca a propria volta la sua bocca di luce, divaricandomi gli occhi e strappandomi alla chiesa.

Ricordo. Giocavamo all’Imperatrice. L’Imperatrice ero quasi sempre io, perché avevo i capelli rossi e gli occhi verdi. Se non mangi quella terra non ti vorremo più bene e verrai scacciata dal nostro impero. Le altre due guardavano la bambina, che inutilmente cercava una luce di compassione nei nostri occhi: ma eravamo, al contrario, disgustate quando poi lei cedeva. Riempiti la bocca, maiale. Sarahs non sono io.

ADRA: L’unico corpo umano perfetto è un torso mutilato di ogni arto e della testa, e vedi anche quello che dice Michelangelo sulla perfezione delle statue. Una scultura in lattice: un torso perfettamente realistico che respira e attraverso cui si può sentire, se si appoggia l’orecchio sulla sua schiena mantenuta a una temperatura di 36 C°, il battito cardiaco.

Esempio di avventura tropicale di un torso senza occhi né gambe né braccia ma vivo:

Sentiva la luna muoversi e la sua anima con lui, e lentamente lei posò la bocca sulla sua mano fantasma. La ragazza entrò nella capanna. La vita è una gipsoteca in fiamme.

SARAHS: Ero entrata nella capanna.

Luna bianca enorme. Se Sarahs non sono io, chi lo è?

Trovare l’architetto. Enorme luna bianca. Uccidere l’architetto.

Piangevo e piangevo. Ucciderlo…

[continua l’11 luglio]