Palinuro sulla Luna

Se però, come nel caso del modello Palinuro, entra in campo la morte, l'atmosfera cambia. Robert Falcon Scott, che raggiunge il Polo Sud 35 giorni dopo Amudsen, osservando la bandiera altrui nel punto ossessivamente agognato, e muore di fame nel vano rientro dal gelo artico, si trasfigura in altra dimensione.

di in: Captaplano

Il 28 aprile scorso è scomparso a 90 anni Michael Collins, “il primo uomo che non andò sulla luna”; così lo presenta ad attacco di pezzo Mauizio Crosetti su «La Repubblica». Un tono ironico quindi per il comandante del modulo di pilotaggio Columbia di Apollo 11, la missione spaziale che fece toccare il suolo lunare a Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Era il suo compito prestabilito quello di attendere in orbita, “come un papà fuori dalla discoteca”, e recuperare i due ben più gloriosi compagni. Eppure resta qualcosa di paradossale nella preparazione di una vita per l’allunaggio soltanto visto da molto vicino: è l’ombra del mito di Palinuro che sfiora questo astronauta, “oscuro tassista” dello spazio.

Palinuro era il pilota della nave di Enea, cioè come il famoso eroe un sopravvissuto alla distruzione della propria città, vagabondo per il Mediterraneo, e in teoria ugualmente avvolto dal fato ineludibile di fondazione di una nuova città. Come noto, alle viste della costa lungamente sognata, per colpa del dio Sonno, Palinuro precipita in mare e non farà mai parte dell’eletta schiera del suo condottiero, trovando anzi una atroce morte per mano degli indigeni che lo scambiano per mostro marino. Il mito di Palinuro incarna dunque l’uomo che arriva a sfiorare la meta inseguita con lunghe fatiche, che gli sfugge però all’ultimo, con un effetto tragico venato da sfumature comiche. In qualche modo accostabile alla figura di Elpenore che, liberato dalla magia di Circe insieme agli altri compagni di Ulisse, viene svegliato mentre a seguito dei bagordi dormiva sul tetto e così, non ricordando subito la propria pericolosa posizione, casca giù uccidendosi. Emanuele Trevi in Due vite scrive di “irrisoria distrazione”, la stessa che Tommaso Moro imputava a Palinuro, ma pure che “nessuno più di lui incarna l’umano”, ovvero la “minuscola sfiga” che solo lo perde, in questo caso dopo la salvezza di tutti. Umana è forse la condanna tragica a vedersi svanire tra le mani quanto da tempo vagheggiato, meritato e quasi acquisito, unita all’altra faccia della medaglia, ovvero “l’onda d’urto dell’assurdo che procede a ritroso invertendo tutto il passato”.

L’effetto Palinuro si riscontra spesso nella storia e, proprio grazie alla duplicità sopra ricordata, ha avuto buona fortuna letteraria. Cominciamo ancora a prenderlo dal suo lato risibile con qualche esempio. Ne I soliti ignoti il carcerato Cosimo rivela a Peppe er Pantera, che si finge a bella posta una lunga condanna sulle spalle, il piano a lungo meditato per il colpo alla cassaforte del Monte di Pietà. Quando il giorno dopo il personaggio magistralmente interpretato da Memmo Carotenuto viene a sapere che il traditore è uscito di galera e lo batterà sul tempo, soffiandogli il giusto frutto dello sforzo e dell’ingegno, comincia a rodersi e a imprecare, inscenando una variazione bassa e canagliesca del mito. Restano con un palmo di naso molti macchinatori di matrimoni d’interesse con fanciulle ignare o vedove in fregola, o vecchi libidinosi che vengono beffati magari proprio al termine dell’ultimo atto di commedia, quando la giovinetta concupita se ne fugge con più adatto sposo. Un erede sconosciuto, orfano dalle travagliate vicende, viene ugualmente a guastare la festa all’illegittimo vilain che bramava di mettere le mani su una grande fortuna o addirittura un regno. Qui si appioppa allora il comico a un personaggio negativo, con un sovrappiù di pedagogia moralistica volta ad ammaestrare e soddisfare il lettore giudizioso. Ecco Long John Silver che mette in piedi con genio scrupoloso un congegno utile in fondo solo per restituire a lui e ai suoi sodali il legittimo tesoro accaparrato dal loro comandante Flint. Procura l’equipaggio e allestisce una nave che è un capolavoro di finzione artistica, ma resta alla fine con un pugno di mosche, potendo appena rosicchiare come un vecchio topo un pezzettino di ricompensa sfuggitagli a causa di un ragazzino saccente e di compagni francamente inaffidabili.

Un tesoro perso, l’invenzione brevettata un attimo prima da un altro, un traguardo politico sfumato per un tiro della sorte, l’impresa sportiva sottratta da un rookie al maratoneta schiantato in vista del traguardo stimolano lo spettatore (e non certo il protagonista) a un misto di sorriso e di pietà, una specie di sentimento del contrario pirandelliano. Se però, come nel caso del modello Palinuro, entra in campo la morte, l’atmosfera cambia. Robert Falcon Scott, che raggiunge il Polo Sud 35 giorni dopo Amudsen, osservando la bandiera altrui nel punto ossessivamente agognato, e muore di fame nel vano rientro dal gelo artico, si trasfigura in altra dimensione. Così Romeo e Giulietta, che avevano architettato un piano sofisticato e già praticamente andato a segno per eludere i divieti sociali e concretizzare il loro sogno, divengono simbolo eterno dell’amore sfortunato, e dunque ancora più grande. Si legge sempre con un senso d’immedesimazione struggente del caduto nell’ultimo giorno di guerra o del resistente ucciso il 25 aprile in un estremo slancio di sé. Effetto emotivo ben intuito da Erich Maria Remarque, che chiude il suo più celebre libro con le parole dedicate al protagonista Paul Bäumer: “Egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: Niente di nuovo sul fronte occidentale.” Anche Ubaldo Bertoli conclude uno dei romanzi minori sulla Resistenza più belli e sconosciuti, La Quarantasettesima, con un giovanissimo e un po’ scentrato partigiano che corre in città prima dei compagni e viene abbattuto quando già stava per cominciare il tripudio collettivo per la liberazione conquistata a prezzo di tante lotte. Sembra di rientrare nella crudele condizione posta da Poseidone a Venere madre di Enea: “una sola vittima per la salvezza di molti” (Eneide V, v. 815). All’unico cui tocca il sacrificio, destino tragico e pure talvolta ridicolo per un compimento superiore, non spetta nemmeno la sepoltura: Palinuro nell’Ade la richiede al suo comandante, ma la Sibilla gli predice che il suo corpo non sarà mai ritrovato, anche se per lo meno i suoi assassini gli erigeranno un cenotafio. Tornando alla più lieve occasione offerta dalla scomparsa nel proprio letto e non negli spazi di Michael Collins, un saluto allora a lui e a tutti i discendenti, storici o finzionali, di Palinuro, finiti sulla faccia oscura della luna per nostro giovamento e diletto.