
Per un po’ ne parlarono tutti. Prima Antonio aveva lavorato in una grossa impresa dove si era fatto un nome nella messa a punto dei quadri elettrici degli impianti per gli ospedali o per le scuole, nei quali confluiscono centinaia di cavi. Aveva trentaquattro anni. Robusto, quasi calvo, aveva studiato da elettrotecnico, ma se la cavava bene anche con gli impianti, settore nel quale la sua attenzione meticolosa finiva per imporsi. Quando un collega si fermava a osservarlo, lui gli faceva appena un cenno, piegava la testa sotto la barba lunga due dita e proseguiva senza prestargli attenzione. Il padre, un uomo massiccio, aveva fatto il carpentiere ed era morto ottantunenne due anni prima. Da tre mesi sua madre era stata accolta in casa di riposo.
Un sabato pomeriggio, mentre rimetteva a posto la soffitta dei suoi, aveva trovato alcuni quaderni e un piccolo libro degli anni in cui sua madre faceva la maestra: un libretto azzurro dalle poche pagine ammuffite, tenute insieme con due punti metallici. Si intitolava Io sono con voi tutti i giorni.
Cominciò a sfogliarlo. Dopo un po’ scese in cucina:
«Scusa, qual è il peccato contro lo Spirito Santo, quello per cui non c’è redenzione?»
Rosa, sua zia, stava stirando una camicia. Trovò la domanda singolare e alzò appena la testa:
«Lo chiedi a me? Dovresti chiederlo a don Riccardo, è lui il teologo»
«Ma tu un tempo facevi la catechista»
«Sì, ma per i bambini, non per chi si fa venire in mente questi dubbi da adulto»
«Beh, tu cosa avresti risposto?»
«Che è il peggiore, quello per cui non ti prendi cura del tuo talento e di ciò che ti è stato dato».
Antonio rimase un po’ a riflettere, poi risalì in soffitta.
Nelle settimane successive cominciò a mettere mano alla casa di montagna – una baita in legno scuro posta cinque chilometri sopra il paese – e si prodigò per far allacciare la corrente elettrica che già arrivava al rifugio alpino, distante circa quattrocento metri. Rosa pensò che volesse trasferirvisi. Antonio viveva in centro, in un piccolo appartamento. Lei invece, che era nubile e che aveva cominciato a occuparsi dei malanni di sua sorella Caterina quando il marito era ancora in vita, secondo le intese della famiglia avrebbe potuto vivere in quella casa il resto dei suoi giorni.
In effetti, tre mesi dopo Antonio si trasferì. E anzi, apportò qualche altra modifica alla baita, installando nell’orto un paio di grandi pannelli fotovoltaici e un mulino a vento. Parte della veranda fu chiusa per ricavare un laboratorio.
Pur senza stravolgere una rigida routine, la sua disciplina cambiò. Adesso si alzava presto, partiva per il lavoro con la Panda mezz’ora prima rispetto a quando viveva in paese. Il venerdì passava da sua madre, che viveva in uno stato di semi-incoscienza. Ci stava poco, giusto quanto serviva a raccontarle le novità della settimana, ma era più attento: aveva compreso che anche una sola espressione del viso – ormai lei non aveva molto altro da offrirgli – nel tempo poteva assumere un valore insostituibile.
«Forse gli è scattato qualcosa dentro», pensava Rosa, «sta invecchiando anche lui, e d’altra parte sarebbe anche ora che si desse una svegliata, che facesse qualcosa nella vita».
Completato il laboratorio, si licenziò: voleva mettersi in proprio.
«Dice che vuole mettersi ad aggiustare lavatrici, computer che hanno bisogno di memoria. Non è che ne capisca molto», disse Rosa versando il caffè a Ivano, un collega che era venuto a chiedere di lui: «Poi si è messo a pregare. Del resto, ha più tempo. Non è mai stato di molte parole, ma sa, in montagna non c’è nessuno, è già abbastanza se non si finisce per parlare da soli».
«Sì, il silenzio invita alla riflessione».
Rimasto orfano a dodici anni – i genitori erano morti in un incidente d’auto – Ivano era cresciuto in collegio e poi, senza aver concluso le scuole professionali, aveva cominciato anche lui a lavorare come operaio elettricista. Più basso e robusto di Antonio, viveva ancora nel primo monolocale che aveva preso in affitto.
Sorrise e appoggiò sul tavolo piatto e tazzina con estrema cura, come se facessero parte di una collezione rinvenuta in uno scavo. Chiese delle indicazioni precise per salire in montagna, poi si congedò.
2.
Ci si arrivava in auto dal falsopiano che si apriva proseguendo dritti neanche un paio di minuti dopo il rifugio. La strada era comoda e percorribile senza permessi, lo spazio per parcheggiare non mancava. Dall’esterno, non fosse stato per l’orto nel quale campeggiava il mulino a vento, la baita non si sarebbe distinta dalle altre.
In effetti, pensò Ivano, una piccola attività artigianale poteva starci. Dal paese, ma anche da quelli vicini, invece che scendere a Trento con la lavatrice o la lavastoviglie fuori garanzia, si poteva salire in montagna. Ci si impiegava anche meno. E i computer ormai ce li avevano quasi tutti. Il problema semmai era l’inverno, perché certo a nevicare, avrebbe nevicato di sicuro.
Antonio gli fece strada nella cucina arredata con tavoli, sedie e una panca in legno di pino costruiti dal padre. Come gli aveva annunciato Rosa, ora si vestiva con un camice da lavoro blu che gli arrivava ai polpacci e che probabilmente aveva influito sulla fantasia dei compaesani che avevano intravisto in lui una svolta religiosa.
«Ti sei sistemato bene».
«Beh, quello che posso, lo faccio; il resto non dipende da me».
«E col lavoro?»
«Ho sempre qualcosa da fare»
«Scusa, ma che ti arriva?»
«Ho qui un paio di lavatrici, qualche computer, perfino una radio. Sono cose da poco».
«Sì, ma per i ricambi come fai?»
«Ho la fortuna che qui il telefono prende: faccio qualche chiamata in giro, a volte, se si trovano in città, a ritirare i pezzi mando direttamente i proprietari: pagano loro. Per il resto, se non ce la faccio, glielo dico subito. Non posso fare miracoli».
Nella misura dei gesti si avvertiva una calma favorita dall’ambiente o da quel che in quei mesi doveva essergli successo; la voce, sempre un po’ scura, si era fatta più limpida, diversa da quella delle brevi frasi ironiche con cui parlava ai colleghi. Riflettendo per un’istante sulla modesta condizione in cui si trovava, abitando da solo (non si vedeva più con la ragazza con cui usciva), in un povero appartamento alle porte della città, Ivano arrivò a invidiarlo. Per quanto quella scelta fosse stata radicale, godeva di numerosi vantaggi. E il posto, indubbiamente, era strepitoso.
Vagando con lo sguardo, in un angolo della cucina trovò un inginocchiatoio di legno scuro. Non osava chiedere da dove venisse, ma aveva tutta l’aria di essere un’acquisizione recente.
Antonio scorse la sua curiosità e lo anticipò:
«Era di una vecchia cappella. Hanno sostituito i banchi».
Ivano sorrise.
In generale Rosa era contenta che Antonio fosse riconosciuto. Quando andava a trovare sua madre in casa di riposo, i parenti degli anziani cercavano di parlare con lui per confidargli i loro dolori. Lui, sorpreso di tanta attenzione, li ascoltava.
Andò a trovarlo anche don Riccardo per farsi mettere a posto il computer che aveva problemi col sistema operativo: non trovò nulla da ridire, anzi, lo approvò. Antonio non si impegnava in dispute, offriva un esempio di povertà onesta e laboriosa.
Rosa era soddisfatta: «Va a finire che è anche meglio di quel che pensavo».
3.
Qualche tempo dopo – a fine estate – in una delle sere in cui era salito a salutare Antonio, Ivano si trovò di fronte un imprenditore, Paolo Florestani, titolare di un’azienda idraulica che aveva portato un grosso compressore elettrico da riparare. Dopo cena qualcuno arrivava sempre. Basso di statura, coi capelli radi pettinati all’indietro e un’eleganza un po’ trascurata nella sua camicia a piccoli quadri grigi, Florestani sedeva in cucina con Antonio. Secondo l’abitudine che aveva preso da un po’, Antonio non presentava gli ospiti, per lui erano tutti uguali; ma Ivano conosceva già l’imprenditore.
Florestani era a suo agio: il gesto con cui allungava le mani sulla bottiglia per versarsi il vino, girando nel frattempo il viso sorridente verso Antonio, esibiva una disinvoltura che si poteva agilmente scambiare per familiarità: «Negli uffici c’è sempre qualcuno che non capisce. Non sai quanto tempo perdo a cercare di fare andare d’accordo la gente. D’altra parte, fanno sempre le stesse cose, sono rimasti fermi a quel che facevano vent’anni fa».
Antonio lo lasciava parlare, tenendo gli occhi bassi.
«In fondo tu hai avuto l’idea giusta. Tirarti fuori dalla calca, lavorare in un bel posto».
Sull’artigiano pendevano alcuni procedimenti. Due banche stavano studiando il modo più veloce per recuperare i loro soldi. Sua sorella – più anziana di lui – si trovava in una situazione drammatica perché era stata coinvolta in un affare in cui gli aveva prestato una garanzia personale; non avendo lui onorato l’impegno, aveva dovuto farsene carico e si era rovinata. Recentemente il suo appartamento era stato venduto a un’asta giudiziaria.
«Eh, qui hai proprio trovato la tua dimensione,» continuò, «se non avessi i miei dipendenti, quasi quasi mi trasferirei anch’io. Mi sembrerebbe quasi di ringiovanire».
Per quanto Ivano cercasse di mostrarsi cordiale, queste parole lo ferivano. Non era affatto certo che la provenienza del compressore fosse delle più lecite. Antonio beveva dal suo bicchiere, sorridendo a occhi chiusi.
Dopo un po’ l’artigiano li salutò e prese la via di casa.
Dalla finestra Antonio guardava verso il bosco, dove la brezza muoveva le foglie delle betulle che si ergevano davanti alla baita. Ivano rimetteva a posto le sedie. La bottiglia era rimasta a metà. Antonio gli disse: «La mia porta è sempre aperta».
L’ex-collega non replicò e tornò a valle chiedendosi se fosse quello il modo di stare in mezzo agli altri, se insomma bastasse l’esempio; perché, dal suo punto di vista, l’esempio quella sera non era bastato: «Sarà anche così che si sta coi peccatori, ma non mi risulta ci sia scritto che gli si deve anche aggiustare il compressore».
Antonio, invece, lo aggiustò.
Ivano non risalì in montagna, ma un pomeriggio, tornando da un cantiere che si trovava da quelle parti, passò a salutare Rosa per dirsi preoccupato circa qualche cliente che si rivolgeva a suo nipote. La trovò che ripuliva dalle erbacce il prato davanti alla casa.
Dentro, il solito ordine di sottopiatti a uncinetto: lo fece accomodare.
Messo il caffè sul fuoco, venne anche lei a sedersi, ma scusandosi si rialzò subito, per cercare di togliere una piega della tovaglia ricamata:
«Capisco che tu sia in pensiero, ti fa onore, ma la fama comporta queste difficoltà e adesso Antonio comincia a essere conosciuto. Si sta facendo più saggio».
4.
Se la scelta dell’isolamento di norma appare inconsueta, in questo caso in paese era stata vista con maggior partecipazione emotiva. Quanto a sua zia – dopo aver visto il proprio robusto buon senso quasi scavalcato in breve tempo dall’affetto, – lo immaginava nella rosa dei giusti e arrivava quasi a pentirsi dei suoi vaticini limitativi pronunciati a bassa voce negli anni precedenti quando, di rientro dal lavoro, pensava che da lui non sarebbe uscito niente di buono.
Antonio si alzava presto, lavorava, cucinava, faceva una passeggiata nel bosco fino alle vaste aperture dei prati, meta di pochi turisti. Aveva portato con sé il modellino in legno di un galeone spagnolo: ogni sera ne costruiva un pezzo. Ormai era a buon punto. Per quanto godesse di un posto d’onore sullo scaffale, bisogna riconoscere che la Bibbia compariva poco sul tavolo della cucina. Antonio ci provava, si era fatto suggerire i libri più avventurosi, ma dopo due righe la lettura riportava alla mente episodi del passato, come il giorno della Prima comunione in cui aveva avuto il compito di portare il calice all’altare (e nel timore di non farlo perfettamente lo aveva quasi rovesciato). Se la Bibbia era un repertorio di riflessioni, questo suo esame di coscienza prolungato lo sfiniva perché si fermava solo sulle sue colpe. Non avendo una buona opinione di sé, aveva sempre pensato che l’apparente successo degli altri dipendesse dalla maggior destrezza, ma ora aveva forse cominciato a comprendere che li aveva posti così in alto per mantenere se stesso all’ultimo posto.
Due mesi dopo l’incontro con l’imprenditore, salirono a trovarlo anche i carabinieri. Ripristinato nelle sue funzioni, infatti, l’ingombrante compressore giallo e nero era stato venduto a un’azienda che se l’era portato in cantiere soddisfatta del buon affare. Qui però un imbianchino l’aveva riconosciuto come uno dei mezzi rubati a un’altra impresa qualche mese prima, e adesso l’azienda che l’aveva comprato aveva una grana seria. Non che il maresciallo Costanzi o il brigadiere imputassero qualcosa ad Antonio – non c’era materia per ipotizzare neanche lontanamente un concorso in ricettazione – ma, visto quanto Florestani stava andando a dire in giro, e «fatta la tara dello stile del soggetto», volevano capire se Antonio fosse occasionalmente venuto a conoscenza di qualche dettaglio che «potesse risultare utile all’indagine».
Antonio non pensava che un’attività come la sua potesse turbare l’andamento regolare delle cose. Per quale ragione avrebbe dovuto rifiutarsi di aggiustare il compressore?
«Beh, nessuno arriva a sostenere questo,» disse Costanzi, «anzi, io la ammiro, mi creda. Apprezzo la sua coerenza ma, e mi scusi se mi permetto di scendere sul personale, anch’io passo del tempo a riflettere e sono arrivato a una modesta conclusione, ossia che un comportamento irreprensibile, in termini laici – mi perdoni se mi avventuro fino a questo punto – non risiede tanto nell’essere al di sopra delle parti, indipendente e inaccessibile ai dilemmi quotidiani, ma al contrario e più semplicemente nell’affrontare questi dilemmi agendo in modo esemplare. Certo, questo io lo dico dal mio punto di vista, che non è religioso, lo ammetto, perciò lei avrà altre e più stringenti convinzioni da oppormi; ma sono convinto che la mia riflessione abbia, per così dire, una sua generale validità».
Assorto nei suoi pensieri, Antonio si chiedeva per quale ragione non potesse essere lasciato in pace.
Nel frattempo il brigadiere Lurisi esaminava un piccolo souvenir che era appartenuto al padre di Antonio, un portachiavi da parete in legno, con una foto delle Pale di San Martino, che stava sullo scaffale di fianco alla Bibbia e vicino al galeone spagnolo.
A testa bassa, come in confessione, Antonio ribadì che l’imprenditore, dopo aver consegnato il compressore, non gli aveva confidato niente: aveva parlato dei suoi sogni, di poter anche lui, un giorno, ritirarsi in montagna.
«Senta,» concluse Costanzi, «i buoni propositi vanno sempre bene, ma intanto la sorella di Florestani mangia perché il sindaco, vista la situazione, ha chiesto alla società che fa le pulizie negli enti pubblici il piacere di trovarle un impiego part-time nel settore; i suoi dipendenti, invece, dovranno farsi bastare la disoccupazione, finché durerà. E così i loro figli. Non occorre mica ammazzare qualcuno per fargli del male».
«Capisco,» disse Antonio, che in realtà non aveva capito perché dovessero torchiarlo fino a quel punto.
5.
L’aria azzurra sopra gli abeti che delimitavano la radura – e dietro i quali si intravedevano, lontane, le cime già innevate – lo rinfrancava sull’esistenza di un orizzonte più solenne, incommensurabile con le vicende quotidiane, che dovevano essere rapportate a quella dimensione. Il galeone era a buon punto. Il suo problema, come quello di tanti, erano gli esseri umani. D’altronde, anche se non se lo era mai chiesto, non era forse anche quella di abbandonare i troppi incontri abitudinari una delle ragioni per le quali aveva deciso di salire in montagna? Le parole del maresciallo continuavano a tormentarlo, come se si dovesse rimproverare qualcosa: avrebbe dovuto essere più accorto.
Rientrato, aveva aperto la Bibbia sul Libro dei Re, ne aveva letta qualche pagina, poi si era addormentato. Nel sonno i suoi desideri si riaccendevano, o per meglio dire proseguivano in una forma neanche tanto travestita: la calma, la pace dei prati, anche se talvolta si insinuava una figura femminile molto terrena, che gli correva incontro e che forse la lettura aveva favorito. Nella veglia, e nei mesi successivi, mutò atteggiamento, si fece più sobrio. Andava a messa una volta in settimana, di venerdì, dopo essere andato a trovare sua madre. Arrivando in anticipo, si fermava nella chiesa di S. Pietro a pregare con le pensionate. Nella penombra della navata centrale osservava le donne nelle prime file che pregavano insieme: pensare che ciascuna pronunciando le stesse parole intendesse e sperasse qualcosa di diverso per sé e per i propri cari era un’esperienza rinfrancante. Negli anni precedenti non ci aveva mai fatto caso. Non era solo un espediente per consolarsi.
In casa di riposo il suo arrivo suscitava sempre l’interesse di qualche infermiera anche perché spesso si presentava con indosso il suo camice blu da lavoro. Carla si offrì volentieri di accompagnarlo nel salotto destinato agli incontri, dove per due ore riuscivano a spingere sua madre. Quel giorno, però – gli disse Carla – zia Rosa era già arrivata.
Si fermò sulla porta. Le vedeva entrambe in prima fila davanti alla vetrata. Rosa aveva accostato la poltrona alla sedia a rotelle dove era sistemata sua sorella, seduta con la schiena eretta, completamente catatonica. Sulle prime Antonio pensò di tornare indietro, poi invece si fece forza e, avvicinandosi, prese anche lui una sedia.
«Ah, ecco che viene Antonio, non sei contenta?»
Le salutò entrambe, baciando sua madre sulla fronte.
«Allora, che si dice? Tutto bene in montagna?»
Antonio annuì.
«Sono contenta di vederti perché avevo qualcosa da dirti. Ne ho anche discusso con Margherita. Ora, lo sai, io non entro nelle dispute religiose; te l’ho già detto, non faccio più la catechista, ma qualcosa devo dirtela.
Ti ho sostenuto fin dall’inizio in questa scelta di cambiar vita e metterti in proprio: ti fa onore, e non serve che io aggiunga che hai fatto bene. Che poi in giro la gente discuta, chissenefrega. So benissimo come vanno le cose in questo mondo e lo sai anche tu. Trovano sempre qualcosa da ridire. Ma che tutto questo, questa fatica, questa riflessione o come la vuoi chiamare ti abbiano portato a recitare le litanie e il rosario con le vecchie del paese, questa – scusa – mi sembra davvero un’enorme perdita di tempo. Non vuoi più vedere nessuno, sei rimasto deluso? Padronissimo di farlo, ma che le uniche persone che vedi quando scendi siano loro mi sembra fuori da ogni logica».
Ogni tanto, mentre parlava, guardava il profilo di sua sorella, cercando una conferma che non poteva arrivare, perché lei restava immobile con lo sguardo oltre la finestra. Antonio ascoltava con gli occhi bassi.
«Naturalmente, le vecchie sono felicissime di vederti. Vorrebbero anzi allungare il momento di preghiera prima della messa e lo stanno chiedendo anche a don Riccardo. Ma non serve dirti che sono quattro rincoglionite, fin lì dovresti arrivarci. Cosa vorresti adesso, anche la messa in latino?».
Rosa scosse la testa, accarezzando con l’altra mano la mano di Caterina: «Se vuoi fare qualcosa, il mondo è pieno di bisognosi. Pensi che star lì con quelle rimbambite sia la cosa migliore che tu possa fare, oltre ad aggiustare lavatrici?»
Antonio non replicò.
6.
Si era imposto di alzarsi prima dell’alba: cercava di immaginare i regni ultraterreni, ma faceva fatica. Cosa poteva succedere, in un mondo in cui il tempo non ci sarebbe più stato? Dopo una notte umida, camminare nell’odore dei prati era un buon modo di cominciare la giornata. Al rientro faceva colazione e si metteva all’opera. Ora col freddo circolava meno gente, perciò anche i contatti si erano diradati, al di là del normale avvicendarsi delle consegne o del ritiro degli elettrodomestici. Anche questi, peraltro, si mantenevano al di sotto della soglia che gli avrebbe consentito di reggere meglio il suo mestiere.
Talvolta, ripassando con la vernice il galeone, non poteva impedirsi di avvertire un senso di insufficienza in quel che faceva, che a volte si aggravava in un’oscura delusione. Per quanto fosse severo con se stesso, questo non bastava né a compensare ciò che gli sembrava di non capire, né a migliorarsi. Ne aveva concluso che non si trattava di un problema di conoscenza personale, ma di ciò che non riusciva a intuire nella vita degli altri. Nei mesi successivi cercò di riflettere meno su di sé e più su ciò che lo circondava, ma la coscienza della propria inadeguatezza cresceva.
In pieno inverno, mentre si scaldava davanti alla stufa, un cliente gli disse che gli affari della sua vecchia azienda erano precipitati: dopo il blocco di due grandi cantieri pubblici per ragioni legate a un ricorso sugli appalti, erano scattati i licenziamenti. Ivano ci era andato di mezzo: «Non per le sue capacità, è ovvio; ma ricorderai che non ha un diploma».
Non lo aveva più sentito. Gli spedì un messaggio, a cui Ivano rispose: «Tutto bene, ti ringrazio. Non preoccuparti».
Per un mese si era adattato a fare il commesso in un negozio di forniture elettriche, ma non ci era riuscito. Seguendo il consiglio di un amico, aveva investito i suoi risparmi nell’acquisto di un furgone per mettersi in proprio. E aveva cominciato a lavorare come autotrasportatore: l’umore era migliorato, ma le cose non andavano meglio. Ora i problemi derivavano dai margini esigui con cui doveva vivere.
Sceso a Trento per far scorta di ricambi in un negozio, mentre sceglieva i cavi, Antonio incrociò Gianfranco Erbert, un elettricista che conosceva, prossimo alla pensione. Gli fece solo un cenno e aggiunse: «Hai fatto bene a tirartene fuori per tempo».
Mandò un messaggio a Ivano per Natale, a cui stranamente non ebbe risposta.
Il ventisei, lo chiamò Alice, una conoscente comune. Ivano era morto nel sonno a causa delle esalazioni della stufa: «Sapeva che non funzionava bene e ci stava sempre attento. Di solito dormiva con la finestra aperta: lo sai che era molto metodico; ma questa volta la finestra era più o meno chiusa, si è addormentato sul divano. Forse era troppo stanco».
7.
Un amico di suo zio Francesco, un ambulante di verdura di Genova, doveva rifare l’impianto del magazzino. Non era ricco, perciò sperava di farlo contenendo i costi. Ecco perché si erano rivolti a lui. Conclusi i lavori urgenti, Antonio chiuse la baita e partì.
Ivano non aveva neanche quarant’anni. Mentre tornavano verso la macchina dopo il funerale, Rosa, soffiandosi il naso, gli aveva detto di non aver mai incontrato nessuno che sapesse comprendere le persone senza farlo pesare come era proprio di Ivano, «tranne forse il farmacista Chiarugi». Se lui avesse sospettato le condizioni in cui Ivano viveva sarebbe intervenuto, avrebbe cercato di passargli qualche lavoro. Antonio faticava a perdonare la propria pigrizia, per questo, davanti alla richiesta di Francesco, non aveva avuto alcuna esitazione a partire. Riteneva anzi che la trasferta avrebbe potuto contribuire ad affrontare queste sue debolezze.
Seduta davanti a lui, una donna di colore aveva dato da bere un succo di frutta al figlio, un bambino vivace intorno ai quattro anni che ora guardava dal finestrino.
«Che posso dirti?» aveva risposto a sua zia, parlando di Ivano, «Era un amico. Sai meglio di me che non tutto dipende da noi. Ho cercato di fare quel che ho potuto». Ma sapeva di aver potuto poco. Guardandosi allo specchio con gli occhi spenti si era riconosciuto un’ottusità che credeva visibile anche agli altri e che si stava rassegnando ad accettare. Del resto, il contenuto di vari libri gli appariva un mistero chiuso e cupo; benché fosse in grado di amarlo, ammetteva di non riuscire a padroneggiarlo fino in fondo.
Suo zio venne a prenderlo alla stazione Principe. A casa, al pianoterra, vicino al garage, aveva da tempo sistemato una stanza per gli ospiti, con un piccolo bagno, che Antonio fu contento di occupare. Si era portato con sé il galeone, ormai aveva bisogno solo di qualche ritocco.
Francesco era un uomo sui sessant’anni, tarchiato e mobilissimo. Lavorava come ambulante di biancheria per la casa. Di buono aveva che – al di là di quel che serviva al suo mestiere – era di poche parole, perciò con lui Antonio non aveva difficoltà ad andare d’accordo.
Il magazzino era vasto, circa duecentotrenta metri quadri, incredibilmente sporco: l’impianto rudimentale, con i cavi che passavano in superficie, era privo di ogni requisito di sicurezza.
«Lo hanno appena acquistato. Te l’ho detto: è tutto da rifare».
Dieci minuti dopo arrivò Ezio, quasi dieci centimetri più alto di Francesco. Era in compagnia di sua moglie e di Katja, una giovane moldava che dava loro una mano con la verdura.
Indossato il camice blu, Antonio fece un giro di ispezione valutando muri, interruttori, prese e il numero di neon da installare. Si informò se avessero già pensato alla cella frigo. Ezio rispose che aveva dato l’incarico a una ditta specializzata, che sarebbe intervenuta dopo i lavori. Prendeva nota sul suo quaderno, rassicurava Ezio anche con maggior cortesia di un tempo. Linda e Katja si erano messe in un angolo e parlavano di un litigio fra clienti accaduto durante la mattinata di lavoro al mercato. Non si trattava di un impianto complesso. Dopo aver preso appunti, aveva tracciato a mano libera un’ipotesi del lavoro e l’aveva presentata: chiese a Ezio e Francesco di portarlo a comprare il materiale di cui aveva bisogno.
Il giorno dopo si mise al lavoro. Ezio passava verso le due e mezza e gli portava il pranzo. Più tardi passavano anche Linda e Katja, che gli lasciavano un panino e una bottiglia di acqua minerale (per la merenda).
Già dopo tre giorni le cose stavano cominciando a prendere forma. Antonio lavorava fino alle sette di sera, pensando talvolta alle radure e alla baita. Sullo sfondo restava la vicenda di Ivano: sentiva di avere qualcosa da rimproverarsi.
La sera telefonò a Rosa per avere notizie di sua madre: «Condizioni stabili, ma tu cerca piuttosto di farti un giro, di vedere un po’ di mondo, che è ora».
In una settimana il lavoro era arrivato a buon punto. Il sabato, Ezio venne a prelevarlo nella sua camera e per lui non ci fu verso di opporre resistenza. Ezio indossava un giubbotto di jeans appena lavato sopra una camicia blu. «Insomma», diceva girandosi una mano nell’altra, «vorremmo portati a vedere Genova. Mi sembra il minimo». Linda e Katja ridevano dietro di lui.
La città gli piacque, soprattutto il porto e l’acquario, verso il quale nutriva una curiosità elementare. La sua abituale espressione assorta e un po’ chiusa, che nascondeva a volte un’ostinata incomprensione, sembrava aprirsi, farsi più ricettiva. In un ambiente tanto lontano dal suo, i sensi si ridestavano. Linda e Katja parlavano del coro dove Katja cantava e scherzavano su Luigi, il figlio undicenne di Linda ed Ezio che avevano sorpreso a cantare un pezzo del repertorio in garage.
Katja aveva cominciato ad apprezzare la serietà di Antonio: glielo avevano presentato come un solitario, ma a lei sembrava più semplicemente un uomo poco abituato a stare in mezzo agli altri. Magra, emaciata, parlava con Linda guardandosi i piedi. Era convinta che se Antonio avesse dovuto lavorare al banco del mercato anche solo per un mese le sue abitudini sarebbero presto cambiate, ma soprattutto la colpiva che fosse così responsabile in ogni scelta quotidiana; anzi, disse a Linda che in fondo viveva una condizione simile alla sua: come un emigrante in un paese straniero, rifletteva sulle sue esperienze cercando di imparare una lingua nuova. Il fatto che fosse trentino e non straniero – come Linda si era subito affrettata a precisare – per lei non cambiava il discorso di una virgola.
8.
Finito l’impianto, Ezio gli propose di supervisionare i lavori finché non fosse stata montata la cella frigo. Antonio non se la sentì di rifiutare, ma chiarì che non sarebbe rimasto un giorno di più. Ogni mattina passava in rassegna un aspetto diverso del magazzino, controllava che ogni dettaglio fosse ben sistemato; quando gli imbianchini ebbero finito, sistemò in breve le placche degli interruttori e delle prese di corrente. Completò il quadro e montò la porta che lo chiudeva, il grande pannello di plexiglas trasparente con intelaiatura in alluminio. Sistemò l’alto battiscopa entro il quale passavano i cavi. Pensava al tempo della ristrutturazione della casa dei suoi: il trambusto degli artigiani che disturbava sua madre, mentre ogni sera, perlustrando il cantiere, suo padre si concentrava orgogliosamente sul risultato che vedeva crescere solido e discreto. Tornato da scuola, lui bambino si muoveva fra il piastrellista che ascoltava sempre la radio e l’elettricista, portando loro da bere e ascoltando i loro consigli, in particolar modo quelli dei due imbianchini. Era un ragazzo «serio e giudizioso», come sentì dire a suo padre da uno di loro – mentre era nascosto dietro una tramezza – «promette bene».
Francesco venne presto a vedere il magazzino dai muri imbiancati (la parte inferiore con una tinta lavabile). Assorbito un diverso ritmo quotidiano, Antonio sentiva che le sue priorità stavano cambiando: si era abituato ad avere qualcuno intorno, qualcuno a cui interessava ciò che faceva e che, anche quando era assente, teneva in considerazione la sua presenza e forse addirittura lo pensava, come era accaduto con Katja e Linda. E intanto la cella era pressoché pronta.
La sera trovò un messaggio in segreteria da parte di Rosa: «Senti, non so come la prenderai, ma credo possa farti piacere sapere che Ivano ti ha lasciato qualcosa. Evidentemente deve aver scritto da qualche parte una sorta di testamento. Sono contenta per te. Si tratta di un oggetto di modesto valore, intendiamoci, ma devo dire che mi piace. È inutile che stia qui a parlartene, lo vedrai al tuo ritorno. E comunque, spero che questa gita ti serva a conoscere un po’ di mondo. Tua madre è sempre uguale. Torna presto».
Finito il lavoro, Katja lo portò all’acquario.
Antonio fu travolto dalla luce delle enormi masse di acqua azzurra, dal modo in cui il cavalluccio marino si spostava nell’acqua, con invidiabile economia di movimento. Gli piacquero soprattutto gli elefanti marini e la molle trasparenza delle meduse. Katja era così divertita che più che guardare gli animali nelle grandi sale si concentrava su di lui, sulle espressioni del suo volto. Seguire con lo sguardo tante creature silenziose lo confortava, come se questa visione gli avesse dato accesso a un entusiasmo segreto. Sentiva crescere in sé la fiducia, che in precedenza aveva pensato potesse derivare esclusivamente dalle rigide abitudini che si era imposto e che invece qui sorgeva abbondante in modo gratuito.
Il giorno dopo venne l’ora di partire.
Ezio gli chiese di riflettere seriamente sul suo futuro, ricordando che con lui e suo zio, un posto, lì a Genova, lo avrebbe sempre potuto trovare. Linda e soprattutto Katja furono molto affettuose, raccomandandogli di tornare presto. Alle sei di mattina prese il treno.
9.
Nella brezza il mulino a vento si muoveva appena. Si era fermato pochi metri sotto la baita a osservarlo nella luce fredda dell’alba. Sentiva rinnovarsi la sensazione in cui alla purezza dell’aria si mescolava il sentore di legno dovuto all’umidità del fogliame.
L’erba aveva ricominciato a crescere.
Con la mano sinistra, reggeva l’eredità di Ivano.
Pur contenta di rivederlo, il giorno prima zia Rosa non aveva perso tempo: «Ecco qui questa sorta di vaso, di zuppiera, quasi un centrotavola in metallo. È questo che Ivano ti ha lasciato. Me lo ha portato la settimana scorsa suo zio Alfredo. Non posso dire che sia brutto, ma davvero non saprei dove metterlo. Ad ogni modo, è stato un pensiero gentile e tu devi esserne contento. Strano regalo, non ne capisco il motivo – forse tu ci riuscirai – ma è stato sicuramente un pensiero gentile».
In realtà era un’urna cineraria in rame brunito. Ed era vuota.
Forse Ivano aveva inteso ricordargli che la morte è un’evenienza sempre più vicina di quel che pensiamo, o forse, in modo più sottilmente perentorio, l’urna rappresentava un’ammonizione contro il tempo sprecato e quella stagione di lavoro in montagna che a Ivano, al di là dei suoi sforzi, era sembrata più che altro un giro a vuoto. Nell’apparente calma della vegetazione, col vantaggio della serenità che la rinuncia agli eccessi aveva portato con sé e dietro la stupida apertura dell’accoglienza incondizionata (molto più difficile in pratica di quanto avesse pensato), il suo lavoro aveva nascosto l’incapacità di farsi carico di sé e anche degli altri. Tornando per un istante con lo sguardo sull’urna, non riusciva a pensare a un’intenzione più negativa o sinistra. Non voleva chiedere allo zio di Ivano se si trattasse di un oggetto specificamente menzionato nel testamento e destinato a lui per ragioni esplicite, o se nelle ultime volontà si fosse trovato scritto solo di donargli quell’oggetto a futura memoria.
Osservando un palo della staccionata inclinato pensò alla croce sulla tomba di Ivano, che aveva voluto essere sepolto nel terreno – questo sì lo aveva chiesto – e che forse ora era meno solo di quanto non lo fosse in vita.
Sì, l’erba aveva ripreso a ricrescere. Fra quindici giorni davanti all’ingresso sarebbe stata tanto alta da lasciare intendere a tutti che la baita era disabitata, o quantomeno adibita, come altre, al solo uso estivo.
In questa forza apparentemente anonima Antonio avvertiva una dimensione più vasta del tempo alla quale anche lui apparteneva e che non poteva affrontare digrignando i denti, né disperandosi per non essere in grado di farlo. Doveva continuare a fare il suo dovere. Entrò finalmente in baita e trovò la giusta collocazione per l’urna di Ivano, sullo scaffale, dove teneva la Bibbia, vicino al souvenir delle Pale di San Martino e al posto dove avrebbe piazzato il galeone.
Il giorno dopo fece i bagagli e ripartì per Genova.