Sonetti del Badalucco/ 4

Vita e pensieri dell'attore Attilio Vecchiatto, con testimonianze autentiche di Enrico De Vivo, che ha avuto l'onore di conoscerlo e ospitarlo, permettendogli un rinfrescante soggiorno napoletano. Quarta parte.

Umbrarum fluctu terras mergente…”.

G. Bruno, “De la causa. Principio et Uno”

VITA DI VECCHIATTO – 1960/1987

Nel 1960 Attilio e Carlotta sono invitati da Jean Vilar a recitare alla “Maison de la Culture” di Caen, in Normandia; ma per qualche motivo la cosa non va in porto. Passano un anno a Parigi, in un alberghetto nel quartiere periferico della Villette, indebitandosi fino al collo. Poi finalmente riescono a fondare il loro “Théâtre de la Bonne Saison”, sempre nel quartiere della Villette, dove reciteranno per molti anni, tra una tournée e l’altra.

1968. Qui cade l’innamoramento un po’ pazzoide di Attilio per l’attrice cinematografica Danielle Darrieux, che secondo lui somigliava moltissimo a sua madre (cosa del tutto smentita da una foto di Vittorina Brusatin, scattata a Fuentes La Cruz nel 1939). Carlotta, con la figlia Ofelia, abbandona il marito e si trasferisce presso suoi parenti in Svizzera, nei dintorni di Ginevra. I due si riconcilieranno solo cinque anni dopo, quando Carlotta tornerà a Parigi e parteciperà alla fondazione d’una nuova compagnia teatrale (la  “Compagnie Shakespeare en famille”), sempre nel quartiere della Villette. La nuova fase del loro lavoro inizierà con la messa in scena d’un King Lear recitato su un palcoscenico quasi totalmente buio, dove si intravedeva  la presenza di moltissimi burattini e marionette ventriloque.

Nel 1980 Attilio e Carlotta sono invitati al teatro Dullin di Rouen, dove ottengono il loro più prestigioso successo, con un adattamento shakespeariano per marionette e attori anziani. Attilio e Carlotta interpretano una coppia di Giulietta e Romeo centenari. Lo spettacolo era basato su quattro voci e una schiera di marionette: “In certi momenti le voci sorgevano assieme, come in una musica a canone, per poi lasciar spazio a una di loro che raccontava i fatti. Quando Vecchiatto prendeva la parola, non sembrava più d’essere in un teatro, ma di sentire un vecchio emigrante italiano che parlasse in famiglia della sua dura vecchiaia” (Joël Masson, Vecchiatto è altrove, Parigi 1987, testo per un documentario su A. V.).

Anno 1984. È il momento in cui Vecchiatto riceve i massimi segni di stima da parte di grandi uomini di teatro, come Tadeusz Kantor, Peter Brook, Jeanne Moreau. E proprio ora Attilio e Carlotta sono invitati in Italia da un impresario che conta su una loro tournée di  grande successo. Ma appena qualcuno lo informa sugli spettacoli dei coniugi Vecchiatto, l’impresario fa marcia indietro, rompe ogni contratto, e pianta Attilio e Carlotta in un albergo di Milano, senza pagare neppure il conto. Con la conseguenza che le loro valigie e i loro vestiti sono sequestrati dall’albergatore, in attesa che i due attori paghino i debiti.

Carlotta rimedia alla situazione chiedendo prestiti ai suoi parenti svizzeri.  Dopo di che i Vecchiatto affittano un appartamento in via Pellegrino Rossi, da dove però dovranno fuggire quasi subito per una stranissima accusa di diffamazione a Dario Fo.

Anni 1985-87. Attilio e Carlotta vagano per l’Italia in cerca di lavoro. Giunti a Roma,  sono arrestati e finiscono per un paio di settimane nella prigione di Regina Coeli, ma è un periodo molto oscuro. L’unica testimonianza attendibile su questi anni è quella di Enrico De Vivo , che nel 1985 ospita i coniugi Vecchiatto  in casa sua, ad Angri, in provincia di Salerno, e in seguito trova  un appartamento dove possono abitare, a Capua, presso i fratelli Scannapieco.

SONETTI DEL BADALUCCO NELL’ITALIA ODIERNA

32. Alla figlia Ofelia, appena uscita dal collegio

Ofelia, va’ in convento! Vuoi sposarti
e diventare moglie di sgonfiotti1,
o d’altri tizi pronti a trasformarti
in fanatica di nuovi prodotti?

Guarda là quanti sono a rintronarti:
milioni, in bel completo, con fafiotti,
telefono, scarpe lustre, a reparti,
lanciati verso il business dei ciucciotti.

È il nuovo mondo inondato di scarti,
musica, video, vacanze, salotti,
la catena che viene a trascinarti
nel paradiso di vita dei bigotti.

“Grazie, padre – tu dici – ho il cuor contento;
ora ti prego, portami in convento”.

33. Sulla speranza. Dialogo con un giovane ottimista, a cui l’autore ha replicato come segue

Voi contro i disperati ed i depressi
elevate barriere d’ottimismo,
predicando tremila compromessi
fondati su un energico attivismo.

Ma le speranze vostre, e vantaggi annessi,
per lo più sono puro fanatismo:
più soldi, più potere, più successi,
in gare d’ansia nel mar del solipsismo.

E la sterilità di questi eccessi,
di insetti punti da megalomanismo            
fa della vita una gabbia d’ossessi:
affàn caduco, fior di parossismo.

Vecchiatto è un clandestino in latitanza
e lascia tutta a voi quella speranza.

34. Sulla dittatura del nuovo

Hanno ficcato in testa a tutti quanti
che il nuovo sempre sia cosa migliore,
e in massa vedi ovunque gli zelanti
vestire i panni dell’adoratore

d’ogni gadget ch’è nuovo e un po’ più avanti
rispetto al nuovo delle sue passate ore,
con nuove macchinette elettrizzanti
esibite come titoli d’onore.

Il Badalucco la dà da bere a tanti
che non resta in giro un onesto obiettore:
tutti si inchinano ai nuovi fabbricanti
e il nuovo diventa la religion maggiore.

Questa è la vita come target aziendale:
e qui finisce il mio sonetto, bene o male.

35. La  favola del re nudo

Gente che ascolta ma poi non ti sente,
gente che guarda ma poi non ti vede,
gente che parla senza dire niente,
gente che ai soldi soprattutto crede.

Rivolger loro una supplica ardente
perché rispondano a ciò che si chiede?
o una preghiera da uomo paziente
perché ti parlino un po’ in buona fede?

Se tu fossi una sigla splendente,
un computer, un tram o un marciapiede,
gli esperti di cui siamo alla mercede,
ti baderebbero più cortesemente.

Ma quel loro saper tecnico e crudo
non è come la fola del re nudo?

36. Tabula rasa dei vecchi. Scritta in un giorno melanconico, dopo aver visto la liquidazione di anziani da una fabbrica nei pressi di Mira (Venezia)

Li vedi tutti correre di fretta,
affannarsi e scavalcarsi a vicenda
e d’ogni mezzuccio fare incetta
per primeggiare in ogni faccenda.

Sono mediocri e hanno mente stretta,
ma tutti hanno annotato nell’ agenda
il nome d’un gran furbastro che li aspetta
per dare loro un’occasion stupenda.

Un’occasione tale a noi non spetta
perché in vecchiaia non trovi chi stenda
la mano per toglierti dalla disdetta
in un mondo che tanto si affaccenda.

Dei vecchi si vuol far tabula rasa:
zitti, a guardar la tivù, e sempre in casa.

Testimonianza autentica sull’attore Vecchiatto resa da Enrico De Vivo (ex professore nella scuola media)

Attilio nella mia famiglia

Io abito in un vecchio cortile, dove ci sono altre quattro abitazioni in cui vivono i parenti di mia moglie, la quale ha ereditato da sua madre la nostra casa. Nel periodo in cui abitava qui da noi, Attilio si svegliava ogni mattina alle sei e andava a bussare quasi subito alla porta di zia Candida, ultraottantenne ma vigorosa e arzilla. Zia Candida gli preparava il caffè e gli raccontava del marito Antonio, che aveva fatto la guerra in Africa ed era stato prigioniero per quasi tre anni – poi quando era tornato a casa, lei s’era innamorata cotta di lui perché sembrava un attore. Dopo aver visitato zia Candida, ogni mattina Attilio passava attraverso il ballatoio nella casa di zia Gorizia, dove c’era sempre agitazione e disordine, per la presenza di cinque bambini di età compresa fra i tre e i dieci anni. Gli piaceva fare queste visite da una casa all’altra, dove chiacchierava del più e del meno, e poi, la sera, se era di buzzo buono, recitava nel cortile qualche poesia di Leo pardi o altre cose belle. Infine, prima di andare a dormire ramazzava le foglie del noce e rimuoveva scorze e gherigli dal selciato,  da solo nel buio del cortile, alla maniera di uno spazzino di altri tempi.

Io mi sono fatto l’idea che Attilio fosse per vizio un conquistatore di donne, anche in tarda età. E credo che frequentasse mia zia Candida, mia zia Gorizia e infine mia zia Gerarda con qualche vaga mira del genere – il tic del seduttore. Ma per sedurle come? Si era fatto ristampare il fascicolo dei Sonetti del Badalucco, e una dopo l’altra le mie zie hanno ricevuto questo regalo con una dedica di Attilio chiaramente mirata allo scopo di far colpo. Comunque, con le prime due di queste zie ha avuto poco successo. Con mia zia Candida voleva fare effetto leggendole i suoi sonetti più esistenziali, ma lei cadeva addormentata quasi subito, e Attilio la lasciava lì a dormire e usciva in punta di piedi. Poi ci ha provato con mia zia Gorizia, ma ogni sonetto ricordava a mia zia qualcosa che non c’entrava niente con quel sonetto, e lei non faceva che parlargli della sua famiglia e dei cinque bambini che ne combinavano di tutti i colori. Così ogni sonetto era liquidato in breve. Attilio si sentiva poco considerato, e ogni volta andava fuori dai gangheri ed usciva sbattendo la porta.

Ha avuto  più fortuna con mia zia Gerarda, che si è addirittura invaghita di lui. Era ormai in età troppo matura per avventure amorose vere e proprie, ma Attilio le piaceva moltissimo e si è dichiarata a lui apertamente. Udita la sua dichiarazione pare che lui abbia risposto: «Va bene, ma mi raccomando, non mi faccia fare brutte figure». Da giovane la zia Gerarda era stata una donna bellissima, ma proprio la sua tendenza a innamorarsi facilmente l’aveva portata a restare zitella. Lei aveva studiato pianoforte e invitava Attilio a prendere il caffè a casa sua; e dopo il caffè facevano belle conversazioni sulla poesia, il teatro e altre cose. Poi lui scendeva in cortile e si sedeva all’ombra di un tiglio, mentre lei da sopra strimpellava di tutto, dalle canzoni napoletane a Mozart. Zia Gerarda ha anche tradotto in napoletano uno dei sonetti di Attilio, «La favola del re nudo», che qui trascrivo:

Gente che fa’ a vede’ ‘e te sentì
gente che fa’ a vede’ ‘e te guarda’,
gente che parla senza dice niente
gente che penza ‘e sold’ sulamente.

‘Ll vuo’ rivolgere ‘na supplica ardente,
pe’ te fa risponnere overamente?
‘Ll vuo’ fa’ ‘na preghiera o ‘na creanza
pe’ te fa da’ ‘nu poco ‘e confidenza?

Si tu fusse ‘na pubblicità splendente
‘nu computer, ‘nu tramm, ‘nu marciapiede,
‘sti esperti che ti leggeno ‘int’ ‘a mente
nun te lasciarriano certo all’impiede.

Ma tutta ‘a scienza loro fredda e crura
assumiglia alla favola d’ ‘o rre annuro.

Una volta, durante la festa di San Giovanni, Attilio l’aveva invitata a ballare. Qui per l’emozione, ma soprattutto a causa del grandissimo caldo che faceva, la zia Gerarda era svenuta. Allora Attilio l’aveva rianimata facendo la respirazione bocca a bocca, pubblicamente, vicino alla Villa Comunale. Quando lei era rinvenuta, resasi conto dell’accaduto, non aveva più voluto incontrarlo – ed era precipitata in una malinconia profonda, dalla quale si riprese solo dopo molti mesi, quando Attilio era già partito per le terre del nord.

Anche mio padre era diventato amico di Vecchiatto. Era un’amicizia fatta di quasi nessuna parola parlata, in quanto facevano molti cruciverba insieme, e nient’altro – neanche una chiacchiera. Attilio diceva di aver imparato l’arte del cruciverba da mio padre: cioè non aveva imparato a farli, ma a stare tre o quattro ore seduto a tentare di farli, cosa che considerava eccezionale ed estrosa. Mio padre trascorreva da anni giornate intere con il giornale dei cruciverba davanti, seduto nel cortile su una sedia di vimini. Non li risolveva necessariamente, a volte leggeva le soluzioni all’ultima pagina, ma gli bastava stare lì impegnato in quella postura, stava bene. Non gli interessava arrivare alla soluzione dei cruciverba, gli interessava poter continuare a farne. Attilio vedeva in questa pratica qualcosa di molto simile alle forme orientali di meditazione e si metteva spesso seduto su una sedia a fianco a lui, in silenzio per ore, a scrivere anche lui parole incrociate negli schemi.

A volte mi è venuto il sospetto che Attilio andasse a casa dei miei genitori non per fare i cruciverba con mio padre, ma con la speranza di fare qualche avances con mia madre. Però in seguito ho capito di essermi sbagliato del tutto; e questa è una cosa che devo riferire perché in genere con le donne lui aveva atteggiamenti inopinati, col tic del seduttore. Con mia madre, invece, che era una persona molto mite e pacifica, lui quasi fuggiva. Spesso, quando sentiva che dovevamo andare a farle visita, inventava una scusa per defilarsi, e quando stava con lei si vedeva che provava insofferenza e non vedeva l’ora di andare. Essendomi reso conto di questo disagio, gliene avevo chiesto il motivo, ma lui ha evitato di rispondermi, cambiando argomento. E solo dopo anni, mi sono convinto che Atttilio non volesse stare con mia madre perché gli ricordava la figura di Vittorina Brusatin, sua madre, sua maestra di teatro, e la donna che lo aveva fatto più palpitare in vita sua.

Altre volte ancora, quando lo prendevano le malinconie, Attilio voleva andar via subito, partire. Dovunque si trovasse, gli prendeva la smania di scappare, saltava su, indossava cappello e mantello, e via! Carlotta in queste occasioni lo assecondava senza fare storie, perché alle malinconie di Attilio non c’era altro rimedio. Un pomeriggio di febbraio, con un freddo raro da queste parti, stavo tornando a casa. C’era con me mio cugino Patrizio, detto Onassis perché gli piace la bella vita. Passando dalla ferrovia, vediamo Attlio e Carlotta, fermi al binario 3 della stazione, con lo zaino e due borse ciascuno in spalla. Chiedo dove stanno andando. «Partiamoper Parigi … dobbiamo andare… impegni urgenti…», bofonchia Carlotta facendo segni inequivocabili inerenti all’umor nero galoppante del marito. Mentre Attilio stava a fissare il binario in lontananza, Patrizio mi ha ricordato che dovevamo andare a San Giuseppe Vesuviano per una certa commissione. Appena Attilio sente il nome «San Giuseppe Vesuviano», distoglie lo sguardo dal binario e dice: «Vengo anch’io, andiamo». E quello fu un giorno in cui successe un fatto memorabile.

A San Giuseppe Vesuviano Patrizio doveva comprare mutande e reggiseni dai commercianti cinesi all’ingrosso, per il suo lavoro di ambulante ai mercati settimanali nei paesi dell’agro nocerino. Approdammo a una vera e propria Chinatown a San Giuseppe Vesuviano, piena di negozi con merci e addobbi tipici della Cina. Qui, in mezzo alla calca, ha attirato la nostra attenzione un ’automobile di gran lusso. Dovunque c’era gente che applaudiva, quasi tutti cinesi, con bandiere e gagliardetti della squadra di calcio del Napoli. Poi dall’automobile scende Diego Armando Maradona, all’epoca idolo delle folle partenopee in quanto autore di peripezie incantatorie sui campi di calcio. La gente gli fa ala, e nonostante la calca, Maradona incede sicuro come personaggio venerato e osannato. Stringe la mano a tutti e si dirige verso di noi. Attilio gli tende la mano e Maradona gliela stringe con gran soddisfazione, notando il suo abbigliamento e dicendogli: «Diablo de la pampa…». Tutti i cinesi attorno avevano smesso di far baccano, soggezionati dalla figura di Attilio, che intanto aveva preso a confabulare con Maradona in spagnolo di un certo Martin Fierro. Mentre io e mio cugino, insieme a Carlotta, andavamo a prendere le mutande e i reggiseni, loro due si sono allontanati verso un bar, sempre confabulando in spagnolo.

Quel giorno nascevano due grandi amicizie, per Attilio: quella con Maradona e quella con mio cugino Patrizio. A detta di Gennaro Scannapieco, Attilio incontrava ogni tanto Maradona e mio cugino Patrizio, con lo scopo di mettere in piedi uno spettacolo teatrale particolarissimo, antiamericano, anticapitalista, contrario alla vantata economia di mercato, detta anche mercato libero. Avrebbe dovuto essere uno spettacolo dove a parlare erano solo i pupi della tradizione napoletana e della tradizione argentina, essendo Maradona cultore di questo tipo di teatro. Lo spettacolo avrebbe dovuto essere finanziato dallo stesso Maradona e da mio cugino Patrizio, che si riteneva vittima della suddetta economia di mercato. E Attilio voleva far venire fuori il suo Badalucco come marionetta e personificazione di una peste bubbonica che attanaglia i popoli ingenui come quello napoletano e argentino. I tre avevano intenzione di mettersi all’opera al più presto, ma poi è successo qualcosa di imprevisto e tutto è andato a  monte. Proprio nei giorni in cui il Napoli vinceva il suo primo scudetto, Attilio ha ricevuto un telegramma da Normanno Gobbi,  il quale lo invitava a recitare  nel teatrino di Rio Saliceto (Reggio Emilia). Così è finito il soggiorno napoletano dei coniugi Vecchiatto, e io ho potuto rivedere Attilio solo qualche anno dopo.

SONETTI DEL BADALUCCO NELL’ITALIA ODIERNA

37. Vecchiaia come un viaggio in terre avare

Vecchiaia è come un viaggio in terre avare,
poco ti resta, deserta è la tua via.
Sei presso un fiume, vedi barche passare,
hai voglia sia il tuo turno d’andar via.

L’uom del traghetto fa segno d’aspettare;
tu sai d’essere vivo per  magia;
sai che in un soffio tutto può cessare:
momento buono per la fantasia.

Guardi le nuvole, pensi al sognare
come una bolla d’aria che t’invia
verso luoghi ignoti in cui vagare:
vita gratuita, piana, purchessìa.

Or la tua vita com’è incerta e distante!
La tua grazia sarà d’essere incurante.

38. Alla moglie Carlotta, scritto  in un cosiddetto autogrill sull’autostrada Firenze-Roma

Quanto viaggiare, Carlotta, tra i motori,
quante macchine ci hanno sorpassato!
Ma dove vanno questi corridori,
hanno una meta o uno scopo sensato?

Forse è una giostra dai mille colori
su cui salimmo per slancio affrettato,
poi accorgendoci tutti che là fuori
nessuno può più uscir dal seminato.

Solo all’ultimo insorsero i timori
per quel furioso correre sbandato,
quando tutti sognavamo i tesori
d’avventure a lieto fine assicurato.

Tanti viaggi, Carlotta, abbiam sofferto,
ed eccoci dispersi nel deserto.

(Seconda chiusura, a scelta)
Sì,  ma ormai morsi dall’uzza monetaria,
tutti abitiamo il vento, gonfi d’aria.

39. Sonetto dedicato ai critici

Io non ho mai capito se i critici
che scrivono sui diversi giornali
sono una sola persona con mitici
nomi vari, famosi e nazionali,

oppure son prodotti di scientifici
computer ritenuti eccezionali,
che hanno nuovi programmi specifici
per comporre discorsi sempre uguali.

Certo è che i loro articoli rachitici,
smerciati solo per scopi venali,
e con pensieri – diciam pure – stitici,
sono i nostri oracoli nazionali.

Se trasformava acqua in vino Gesù Cristo,
questi vendono acqua fresca in pronto acquisto.

40. Sul dibattito democratico in Italia

Sono rimasto tre sere davanti
all’apparecchio di televisione;
Badalucco ha parlato a profusione,
non ho sentito voci dissonanti.

Ha parlato solo lui in mezzo a tanti;
lodando la libertà d’espressione,
e tra bordate di applausi scroscianti,
alla fine si è dato anche ragione.

“Godetevi la vita!”, ecco il sermone
che attira i battimani dei votanti.
“Vacanze, libertà e competizione!
Siate liberi e ricchi tutti quanti!”.

Chiotti chiotti, senza dire beo,
gli oppositori si accodano al corteo.

41.  Dall’inferno si transita ogni giorno

Dall’inferno si transita ogni giorno,
l’uomo sperduto questo lo sa bene,
e di dèmoni ognuno ha il suo contorno,
che lo pungono irritando le sue pene.

Ombra tra ombre d’un inferno adorno
di vetrine, réclames, gente perbene,
da un incontro avvilente ora ritorno
e gli uomini m’appaion come iene.

Dentro ribollo come dentro un forno,
fuori nel gelo son tra fredde mene,
l’astio mi investe e le macchine intorno
ringhiano col furor di voci aliene.

Possa io smorzare in me quest’astio eterno
qual viatico d’uscita dall’inferno.

SONETTI DEL BADALUCCO/ 1
SONETTI DEL BADALUCCO/ 2
SONETTI DEL BADALUCCO/ 3

  1. “Sgonfiotto” = Neologismo riferito a quei giovanotti che fanno una brillante carriera affaristica, gonfiandosi per i propri successi – ma giunti a un’età media sono licenziati e sostituiti con carne  più giovane e più gonfiabile di loro, secondo i programmi aziendali. Al che gli ex gonfiati si sgonfiano del tutto.