Divorazioni verghiane

In esclusiva per Zibaldoni, due estratti da Nel nome dei “Malavoglia” di C. Cenini (Cleup, Padova 2020), in cui l’analisi onomastica permette di osservare rapporti di tipo per così dire cromosomico tra figure divoratrici dei Malavoglia e del Mastro-don Gesualdo.

di in: De libris

Dal capitolo I vinti nei “Malavoglia” e nel “Mastro-don Gesualdo”:

Il termine Vinti che dà il nome al ciclo di romanzi progettato da Verga non identifica semplicemente i protagonisti dei vari libri: la parola costituisce anche quello che chiamerei un “polarizzatore tematico”, ovvero un segnale attraverso cui Verga ci permette di individuare alcuni luoghi cruciali dei romanzi del ciclo. Fissare le modalità di questa polarizzazione varrà come primo rudimentale paradigma per l’analisi dei nomi dei personaggi del romanzo.

Nel capitolo decimo dei Malavoglia, la Provvidenza fa naufragio con ’Ntoni, Alessi e padron ’Ntoni.

Santo diavolone! esclamò ’Ntoni col petto ansante, qui ci vorrebbero le braccia di ferro come la macchina del vapore. Il mare ci vince.

Cap. X, par. 19

«Il mare ci vince»: in queste quattro parole va riconosciuto uno dei culmini dei Malavoglia, il momento cioè in cui il titolo del ciclo raggiunge la propria epifania.

Nel Mastro don Gesualdo c’è un passo che presenta un forte parallelismo con quello appena citato. Siamo nell’ultimo capitolo: Gesualdo Motta, morente di un tumore allo stomaco, viene sistemato a Palermo in casa del genero e della figlia Isabella. Terrorizzato dalla morte imminente, l’uomo si aggrappa al suo denaro come ultima risorsa in grado di permettergli le cure migliori.

– […] Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire… Tutto quello che ci vorrà spenderemo, non è vero?

Ma il male lo vinceva e gli toglieva ogni illusione.

Parte IV, cap. V, rr. 309-11

«Il male lo vinceva»: proprio come la battuta di ’Ntoni il passo ha di nuovo una funzione epifanica del titolo Vinti. Tale micro-parallelismo non ci sorprende. Per Verga (così nella nota Prefazione) la storia dei Malavoglia «diventa», per così dire per augmentationem, quella di mastro-don Gesualdo, e così via, almeno nel progetto, in un fluido rapporto di continuità e metamorfosi che si incarna in piccoli dettagli come quelli appena evidenziati, e che incontreremo anche altrove: è come se tra i due romanzi ci fosse una parentela di tipo genetico.

D’altro canto, se si considerano (come si devono considerare) i due passi come appartenenti ad un’opera unitaria, ci si trova di fronte ad un’inquietante e, considerata la distanza tra i due passi, vertiginosa paronomasia tra le parole mare e male; come i Malavoglia diventano il Mastro don Gesualdo, così il mare diventa il male. Tale rapporto metamorfico mare > male ha nelle due opere una consistenza e un’importanza che vanno al di là del parallelismo appena citato.

Il mare dei Malavoglia ha naturalmente molte facce: tra le più terribili c’è quella del divoratore. Il capitolo decimo si apre proprio con un mare di questo tipo.

[…] il mare era cattivo, e voleva inghiottirseli in un boccone, loro, la Provvidenza e ogni cosa, […].

Cap. X, par. 1

[…] le onde, quando passavano vicino alla Provvidenza, luccicavano come avessero gli occhi e volessero mangiarsela.

Cap. X, par. 14

Nel capitolo primo il mare si «mangia» le parole di Menico della Locca: presagio della sua morte.

Menico della Locca, il quale era sulla Provvidenza con Bastianazzo, gridava qualche cosa che il mare si mangiò.

Cap. I, par. 26

Il mare come essere divoratore, attraverso una complessa metamorfosi che qui mi limito ad accennare, diventa il male di mastro-don Gesualdo. Un male il cui rapporto con il tema del mangiare è immediato: un tumore allo stomaco. Nel secondo romanzo del ciclo, tuttavia, la parte del divoratore spetta inizialmente a mastro-don Gesualdo. La contessa Rubiera, per esempio, è ossessionata dall’immagine di Gesualdo Motta che minaccia di mangiarle «il fatto suo»:

– Razze di serpi, sono! Cime di birbanti! Se lo mangiano in un boccone quello scomunicato di mio figlio!…

Parte II, cap. V, rr. 396-7

– […]. Mastro-don Gesualdo!… sì!… Lui se lo mangia il fatto mio!

Parte II, cap. V, par. 574-5

Ma mastro-don Gesualdo deve mangiare anche altro: i «bocconi amari» che finiranno col minare la sua salute. Anche questo del «boccone amaro» è un tema che percorre l’intero romanzo; cito qui un passo in cui mastro-don Gesualdo dichiara una connessione diretta tra quei bocconi e il suo male.

[Mastro-don Gesualdo] spiegava di dove gli era venuto quel male: – Sono stati i dispiaceri!… i bocconi amari!… ne ho avuti tanti! Vedete, me n’è rimasto il lievito qui dentro!…

Parte IV, cap. V, rr. 295-7

Il divoratore diventa ora il divorato, e l’amaro che Gesualdo ha inghiottito diventa il male che lo consumerà: e che lo consumerà apparendogli come un cane che lo sbrana dall’interno.

È lo stomaco che non mi dice. L’ho pieno di veleno! Un cane arrabbiato ci ho.

Parte IV, cap. IV, rr. 240-1

Ci aveva un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato, […].

Parte IV, cap. IV, rr. 412-3

Infine, il palazzo a Palermo dove mastro-don Gesualdo finisce i suoi giorni offre al malato l’ossessionante immagine di una ricchezza improduttiva e divoratrice, di nuovo paragonata al male che lo consuma:

[…] le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto, sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le viscere.

Parte IV, cap. V, rr. 141-7

Ciò che nei Malavoglia divorava dall’esterno, nel Mastro-don Gesualdo consuma dall’interno e contemporaneamente, come nell’ultimo passo, dall’esterno. La trasformazione misteriosa, quasi musicale, di un tema nell’altro tra i due romanzi è un territorio di grande vastità che meriterebbe un’esplorazione meticolosa; qui la incontreremo come una tra le matrici più potenti dell’onomaturgia verghiana.

***

Dal capitolo I due ’Ntoni:

Il nome Antonio, nell’area siciliana, si riferisce solitamente al culto di S. Antonio Abate. Com’è noto, uno degli attributi principali di questo santo è il maiale, tanto che ’Ntoni è anche uno dei nomi con cui si definisce metonimicamente il maiale in area siciliana: e proprio il maiale, in rapporto ai due ’Ntoni, gioca un ruolo tematico fondamentale, anche se di non sempre agevole definizione.

Il legame più immediato è con ’Ntoni: fin dal suo ritorno dalla leva, il giovane viene costantemente, e con intenti diversi, paragonato ad un maiale, inizialmente attraverso un proverbio che paragona la carne del maiale con il soldato. È un proverbio di significato tragico, ma che qui viene citato, durante il lavoro sul mare, per canzonare ’Ntoni dell’essere stato lasciato dalla Sara di comare Tudda.

Nella paranza lo canzonavano perchè la Sara l’aveva piantato, […]. – “Carne di porco ed uomini di guerra durano poco” dice il proverbio, per questo la Sara ti ha piantato.

Cap. VI, par. 10

Il maiale ritorna nel capitolo tredicesimo, questa volta con intento apertamente dispregiativo, in riferimento alla condotta di ’Ntoni con la sorella Lia, insidiata da don Michele il brigadiere, e con la Santuzza, da cui si fa mantenere; a parlare è Piedipapera:

– Se volesse ammazzare don Michele, dovrebbe ammazzarlo per qualche altra cosa; chè gli vuol rubare la sorella; ma ’Ntoni è peggio d’un maiale, tanto che si fa mantenere dalla Santuzza.

Cap. XIII, par. 14

Successivamente, il paragone tra ’Ntoni e il maiale viene raccolto da compare Santoro, il padre della Santuzza, che rimprovera alla figlia la sua condotta con il ragazzo.

– Che vuoi farne di quell’affamato di ’Ntoni Malavoglia? Non vedi che ti mangia tutta la roba senza frutto? Tu lo ingrassi meglio di un maiale, e poi va a fare il cascamorto colla Vespa e colla Mangiacarrubbe, […].

Cap. XIII, par. 56

Alla fine, la Santuzza si lascia convincere, e anche lei paragona ’Ntoni ad un maiale, quando il giovane prende a lamentarsi del peggiorato trattamento.

– Se non vi piace andatevene! gli diceva. Io non voglio dannarmi l’anima per voi; e non vi ho detto nulla quando ho saputo che correte dietro le donnacce come la Vespa e la Mangiacarrubbe, ora che sono malmaritate. Correte a trovarle, che ora ci hanno il truogolo in casa, e cercano il maiale.

Cap. XIII, par. 60

Zio Santoro si rifà al valore che il maiale ha per l’economia del villaggio: dicendo che ’Ntoni, pur venendo ingrassato «come un maiale», mangia tuttavia «senza frutto», l’uomo fa emergere la concezione del maiale come una sorta di serbatoio, di scorta di cibo. È un’idea che ritorna in modo esplicito nel capitolo finale del romanzo, in cui la Mena, per rincuorare padron ’Ntoni, gli parla della possibilità di acquistare un maiale.

Coi denari dei pulcini avrebbe anche comperato un maiale, per non perdere le bucce dei fichidindia, e l’acqua che serviva a cuocere la minestra, e a fin d’anno sarebbe stato come aver messo dei soldi nel salvadanaio. Il vecchio, colle mani sul bastone, approvava del capo, […].

Cap. XV, par. 24

Nel paragrafo successivo, la figura del maiale che mangia entra in diretto contatto anche con padron ’Ntoni, in un modo assai più inquietante che per ’Ntoni; oramai il vecchio è allo stremo delle forze, e il medico dice che non c’è più niente da fare.

Infine

[padron ‘Ntoni] non si alzava più dal letto, e don Ciccio disse che era proprio finita, […], che là in quel letto dove era, poteva starci anche degli anni e Alessi o la Mena ed anche la Nunziata dovevano perdere le loro giornate a far la guardia; se no se lo sarebbero mangiato i porci, come trovavano l’uscio aperto.

Cap. XV, par. 26

L’immagine di padron ’Ntoni divorato dai maiali ha una crudezza che nei Malavoglia è assolutamente unica, e all’interno della tematica che vede nel giovane ’Ntoni proprio un maiale, sembra sublimare un simbolismo molto oscuro, quasi ancestrale. Questo cono d’ombra si proietta, di nuovo, nel Mastro-don Gesualdo, in un passo analogo all’esempio 38: adesso il morituro è Gesualdo, e i dottori, come ultima possibilità, propongono una rischiosa operazione chirurgica, al che la sorella di Gesualdo, Speranza, dà in escandescenze.

– Madonna del Pericolo! – cominciò a strillare Speranza. – Vogliono ammazzarmi il fratello… squartarlo vivo come un maiale!

Parte IV, cap. IV, rr. 646-8

Di nuovo, un’immagine di rara crudezza incentrata sulla figura del maiale; questa volta però, non si tratta di un maiale vero che potrebbe divorare padron ’Ntoni: è mastro-don Gesualdo che è diventato un maiale metaforico, da squartare vivo. Visti nel loro complesso, questi spostamenti della figura del maiale tra i due romanzi sembrano di nuovo riconnettersi a quella misteriosa dialettica divoratore-divorato delineata nel capitolo di questo libro dedicato all’analisi del titolo Vinti; qui, il maiale che nei Malavoglia divora il nonno ora è Gesualdo, che deve essere «squartato» per potersi liberare del male che lo divora dall’interno.

Tanto più interessante sarà notare come l’unica altra occorrenza dell’immagine del maiale in Mastro-don Gesualdo è, di nuovo, riferita al protagonista, che viene definito «ricco come un maiale», similitudine che viene presentata come il risultato dell’attività di «mangiare» gli averi degli altri, attività che contraddistingue Gesualdo, e che sarà infine la sua maledizione nell’immagine dello squartamento: un autentico contrappasso.