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Per Domenico Rea

di in: Bazar

Ricorre oggi il centenario della nascita di Domenica Rea (8 settembre 1921 – 26 gennaio 1994), scrittore tragico e selvaggio tra i più misconosciuti del nostro Novecento, nato a Napoli e vissuto a Nofi (“questo paese che non riuscii a chiamare mai col suo vero nome”). Pubblichiamo qui “Il Regno”, pezzo iniziale di “Nubi”, un piccolo prosimetro del 1976 dedicato all’infanzia nella terra natia. L’aria onirica e malinconica che vi circola è una delle caratteristiche della sua poetica, e potrebbe invogliare forse alla riscoperta del suo universo immaginifico.

Eredità

di in: Antologia

“Man hands on misery to man”, scriveva Philip Larkin. Quasi sempre una simile eredità si arricchisce di doni inaspettati, che però, come in questo racconto di Marchesini, non si capisce mai bene se liberino il dolore dalla vergogna e dallo scandalo o se lo acuiscano ancora di più.

“È in coma, non la può sentire,” ha detto l’infermiere, mentre con gli occhi continuava a seguire lo schermo. Finché i tracciati sono scesi, si sono appiattiti del tutto.

Il Sahara è un suono sinuoso e caldo, un ricordo nella mia mente dolce e infinito. Sulla cima di una duna, di notte, si percepisce la serenità del mondo e il cielo nero pieno di stelle è una vertigine calma.

Noi bianchi cattivi e egoisti che non dividono, come fanno loro, tutto quello che hanno. Chi ha, deve dare, da quelle parti; ai parenti, ai vicini di casa o ai poveri del quartiere. C’è una porta aperta, all’ora dei pasti, e l’obbligo di nutrire chi passa, se ha fame e si siede con te.

“A un certo punto ho trovato una colonna di camion che dal nord andavano proprio a Firenze. Mi hanno lasciato salire su uno, era coperto da una rete e mi ci sono aggrappato per ore… sotto c’era l’esplosivo. L’ho capito solo dopo del tempo cos’era: era l’esplosivo con cui i tedeschi hanno fatto saltare i ponti, a Firenze, per cercare di fermare gli alleati…”.

Forse questi propositi erano l’espressione di un’esigenza che il succedersi di varie stagioni severe non aveva soddisfatto, quella di un mondo in cui la buona volontà e l’equilibrio, e in altre parole lo studio – che evidentemente a lui dovevano essere costati più di quanto non si intuisse a prima vista – ottenevano il giusto riconoscimento materiale (ciò a lui era mancato).

Niente acqua dal cielo, niente strepiti o cambiamenti sulla terra. La gente ferma sotto il giogo delle tradizioni immutabili e della dittatura spietata ma invisibile. Paciosi, ingabbiati, mi sembravano i Siriani. E lenti anche nel dolersi delle questioni loro. Pericolosa? No, mai. Rispondevo a chi si stupiva della mia fiducia e del mio affetto. La Siria che conoscevo era così, e non mi lasciavo disturbare dai segnali di pericolo. Come il nome stesso del luogo in cui vivevo: Dimasq.

Sensazioni di un futuro che sapevo ci sarebbe stato, in qualche modo. Sapevo che, da ragazza, avrei cercato di nuovo questa possibilità di essere persa da qualche parte del mondo. Quando, con lo zaino in spalla, mi sarei lasciata andare a strade assolate e vuote, a paesaggi senza arrivo sicuro, a itinerari scelti dalle correnti del vento.

Le mie mani aggrappate alle sbarre del lettino sono uno dei miei primi ricordi. Una sensazione che ho ancora sui palmi: le sbarre di legno tondo, con una parte che si slargava nel centro, per decorazione, a cui mi afferravo scuotendo piano, senza far rumore. Ero nel cuore della notte, nel cuore della casa e [continua]

Borel

di in: Bazar
Pierre Soulages (1957)

Un dettaglio: io non ho mai scritto una riga. Quello che ti ho letto è tutto scritto qui, nella mia testa. Per me i fogli sono solo cose da riempire di ghirigori. Là troverai solo la cenere dei miei sigari. Prendili pure.

Erano strette, quelle curve, molto strette. Non bisognava guardare da altre parti, non bisognava ascoltare la musica o l’amico. Solo guardare e tenere lo sterzo ben saldo, calcolare bene quanto girarlo, e quando; prima che finisse la curva, girare veloce dall’altra parte. Una volta, un’altra. Un’altra.

Che è cosa ancora più strana, considerando che non era solo un cibo avariato e quindi non sano. Era anche cibo putrefatto; un organismo che è passato dal mondo dei vivi, delle sostanze che ci sostengono, che bruciano dentro di noi facendoci muovere, interagire, sviluppare cellule necessarie e tutto il resto, al regno immobile in cui le cose si trovano in una dimensione fredda, silenziosa, che ci nega nutrimento, ci blocca, ci fa deperire e infine sparire.

Alle venti e diciotto di venerdì 16 giugno c’erano quasi trentadue gradi, ma non era tanto il caldo a irritarlo, quanto l’intuizione improvvisa – e ormai improrogabilmente definitiva – che il ritardo di lei non dipendesse in alcun modo dal tempo impiegato a prepararsi, ma da qualche inspiegabile occupazione in cui doveva essersi impegnata fino [continua]