De libris
Cene al veleno
Resta da chiedersi: perché la scrittura del molteplice, dei mille rivoli, a un certo punto si disciplina per entrare in un libro? Come mai Di Luca distrae l’attenzione dalla biblioteca della dispersione e comincia a scrivere E quindi uscimmo a riveder la gente? Me lo sono domandato diverse volte senza riuscire a rispondere, probabilmente perché la domanda era posta male.
Non ho dubbi che queste pagine di diario legittimamente possano attestarsi per valore e interesse tra le pagine degli altri diari che, nel XX Secolo, si sono rivelate opere di riferimento (da Pessoa, uno dei maestri indiscussi di Torga e da lui frequentato personalmente, a Kafka, per esempio): non c’è infatti nulla di voyeuristico né di pruriginoso in quei lettori che cercano e leggono i diari degli scrittori quando quegli stessi diari sappiano essere, come nel caso presente, evidenze di una dirittura etica limpida, di un amore per la vita, per le persone, per l’arte fecondo e caldo.
Esce tra pochi giorni il nuovo libro di Massimo Rizzante, Una solitudine senza solitudine, nel quale l’autore ha raccolto la sua opera poetica degli ultimi trent’anni. Il custode della poesia di Massimo Rizzante è un uomo prosaico che desidera estinguere quel ridicolo monarca chiamato «Io». Per l’autore, in altre parole, la poesia è sempre «poesia di circostanza», fedele alla propria situazione storica e allo stesso tempo in dialogo con tutte quelle del passato. E, a causa di questa fedeltà, non deve temere di bruciarsi venendo a contatto con la varietà delle forme e dei contenuti. La sua sfida, infatti, non è quella di fondersi con il mondo, ma di comprenderlo.
La debolezza umana del letterato dalla coscienza sempre incerta si era già adombrata nelle correzioni finali di una canzone, in cui Santagata mette magistralmente a frutto la conoscenza filologica e variantistica per illuminare in narrazione un carattere: la verità nichilistica di “nessuna sopravvivenza in terra, ma anche nessuna vita dopo la morte. Il male e il nulla. Un lampo di luce il buio perfetto. Questo è tutto: un niente”.
Quando la produzione industriale degli oggetti domestici ha assunto dimensioni di massa è emerso infatti il bisogno di qualcosa in più, di una dimensione simbolica e trascendente dell’oggetto, il Paradiso terrestre a cui l’acquisto di quel particolare prodotto ci avrebbe aperto le porte, rendendo definitiva la nostra identificazione mediante il possesso. La pubblicità in fondo è servita a costruire questo Aldilà degli oggetti.
“Scrittore” si è percepito solo dopo aver pubblicato due libri, Se questo è un uomo e La tregua, oltre i 45 anni, quando il “mestiere” di scrivere ha cominciato a prevalere sul di lui lavoro quotidiano, quello di chimico, senza che vi fosse una scelta deliberata e consapevole, anzi vestendolo di panni non propri, come avrà a dire.
L’intero libro respira della gioia e del piacere che l’autore riceve dal lessico ricchissimo della lingua italiana, dai suoi suoni che paiono disporsi così naturalmente nell’andamento endecasillabico: è come se lo sguardo poetico di questi incipienti Anni Venti sapesse di essere debitore a una tradizione non invecchiata e non provinciale capace di fare ancora scuola.
“Poche parole che non ricordo più è come un sogno inafferrabile. Il lago attorno a cui si svolge la narrazione ha evocato in me l’immagine della pozza d’acqua, di un verde misterioso e abissale, che mi fu rivelata dall’indovino Ambakene del villaggio dogon di Yendumma, acqua protetta e segreta, nascosta tra le rocce nel cuore del villaggio, sacra perché in essa era tutto il sapere del tempo antico, passato e presente” [B. F.]
“Il diritto lo so a che cosa serve, serve a tenere a bada il rovescio”. La voce narrante di Poche parole che non ricordo più sta parlando proprio del diritto con la D maiuscola, e con un aforisma di quindici parole sintetizza così il rapporto tra la Legge e il suo lato nascosto, l’infrazione che [continua]