Il vetro si è squagliato lentamente, un pezzetto per volta, e ha colato una visione trasparente e pura. Creare qualcosa fuori dagli schemi soliti. Nostro. Vero. Navigare di nuovo verso qualcosa, qualsiasi cosa, insieme.

Scriveva Kafka il 9 marzo 1922, non molto più di un anno dalla morte: “E se uno soffocasse per propria iniziativa? Se, a furia d’insistere a osservare se stessi, l’apertura dalla quale ci si rovescia nel mondo diventasse troppo piccola o si chiudesse del tutto?”. Ora questa immagine del suo stesso accanito diarismo Kafka potrebbe prestarla in modo calzante all’atteggiarsi monologico del teatro novecentesco.

Anche quando è la voce narrante a garantire l’unità della narrazione – e non è dunque la trama a muovere il libro, penso su tutti al caso supremo di Proust – non per questo le altre non godono di un’identità di rappresentazione, a cui va restituita la rispettiva autonomia. Insomma, la prosa del mondo va riconosciuta nella sua eleganza, che non è quella della prosa d’arte.

“La voce di S. quando ronzava la nota sotto l’influsso della vibrazione della motocicletta che aveva finito per fondere insieme lei e suo padre non era la voce che S. aveva di solito, e non le era mai stato possibile ripetere quel suono a casa o in qualunque luogo che non fosse la motocicletta nera di suo padre che saliva verso il lago”.

Tocca però ripetere che in Mari raramente si tratta di un mero gioco formale, perché sempre nelle pieghe più libresche “fa capolino la più umana di tutte le materie: l’autobiografia”, come ha scritto Simonetti su «La Stampa».

«Quando ci incontravamo, in cammino o seduti nelle nostre ragnatele, ci ammusavamo l’un l’altro, senza vederci veramente o toccarci veramente, e in quel silenzioso ammusamento da insetti era contenuta per intero la nostra felicità».

Alla fine era arrivato anche il suo turno. Orgoglioso, Carlo Transi aveva spinto la mole del suo corpo sui gradini di legno fino al palco messo assieme nel primo pomeriggio dagli operai (sotto gli addobbi, due gomme abbondantemente usurate rivelavano il rimorchio di un trattore). Per uno di quei moti incomprensibili tipici dei raduni di [continua]

Le creature dell’aria sono prossime alla bellezza e alla sapienza che può scaturire dalla poesia, la quale, secondo la tradizione romantica tedesca, ha anche nell’usignuolo una sua incarnazione, quasi che la natura sia capace di cantare se stessa attraverso le proprie creature e sappia amare i poeti come Arnim.

Ma lo svago prediletto e dagli orridi bracchi e dai loro guardiacaccia era la morte da diporto, o come dicevan tutti Lazzaro, giuoco del quale segue qui un resoconto steso da una terza parte nei modi che la stupenda lettrice vedrà.

E però un sospetto aleggia nella mente dell’interlocutore di Schtitt, il ragazzino handicappato suo pupillo e sponda dei lunghi sproloqui, che piega, pur senza una definitiva chiusura, il discorso verso il dubbio: “Ma allora lottare e sconfiggere l’io equivale a distruggersi?”

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