L’idea vede mi è venuta ricordandomi di un puntaspilli che aveva mia nonna. Le cose dei nonni sono sempre un po’ spaventose, sono le prime cose che un bambino ricorda nei o dei propri sogni, non lo sapeva? Ci faccia caso. Lo stesso per la vita, ci faccia caso, ogni volta che le capita qualcosa di bizzarro vedrà che in un modo o nell’altro sarà legato a un qualche oggetto che tenevano in casa i suoi nonni.

Se, come si è detto, Hamas, oltre a essere il male assoluto, è anche come l’Isis, conviene integrare l’immaginario tolkieniano con qualche esempio fantasy che coinvolga l’aspetto religioso. Verrebbe subito alla mente il Salgari più affascinante.

Come se al MASaMenCul avessero non dico il bandolo, ma almeno una festuca dell’arazzo indemoniato che chiamiamo la realtà! Come se non parlare della realtà fosse un reato! Giusto! Il reato di lesa realtà! E cos’è poi la realtà, attaccavano i più pensosi della famiglia, sprofondando dipoi in narcibirintiche meditazioni che il più delle volte finivano per sfociare nel gran mare del politico e del dematerializzato…

La Gipsi/ 4

di in: Captaplano

Con il 1994 si chiudono gli anni Novanta, diceva la GIPSI che aveva vent’anni nell’Ottantanove, e che con le letture furenti e gli amori universitari aveva di già terminato la propria formazione. Anche per il mondo l’appuntamento a qualcosa di nuovo daterà 11 settembre 2001.

Simona Carretta prosegue la sua esplorazione dell'”arte del saggio” partendo dalla scomparsa di Milan Kundera per discutere delle prospettive della critica e della letteratura contemporanee.

Una volta illuminato un ricordo preciso, visivo e vivente, “ecco che il buio comincia a diventar trasparente e a filtrare le forme e i colori”, e scaturiscono altre rimembranze; tuttavia si affaccia il nuovo pericolo della sovraimposizione “dei discorsi di dopo”, capaci di ricoprire “con la crosta sedimentata” quanto appena risvegliato e sorgivo.

Succede qualcosa: l’orco e la vittima dietro di me si fanno sempre più lontani, come ci fosse un nastro trasportatore in moto sotto la fanghiglia, e infine scompaiono sotto il pelo dell’acqua. Forse non erano che proiezioni, o forse dovrei già cominciare a ridere perché sta arrivando il finale della barzelletta.

Ma era già al limite. Per assurdo, come se, avendo appiccato l’incendio, se ne fosse pentito; o meglio, come se la colpa di ciò che era accaduto fosse troppo grave e si sentisse impossibilitato ad affrontarla, a porre rimedio a ciò che aveva scatenato l’incidente.

Joseph Beuys a Scheveningen (la fotografia, del 1976, è di Caroline Tisdall) ha le scarpe incrostate di sabbia, uno sbuffo pure di sabbia che gli aderisce anche al pantalone e il Mare del Nord alle sue spalle; mostra (o contempla) qualcosa che tiene innanzi allo sguardo (lo ha appena raccolto dalla sabbia?); il pastrano e il cappello sono le sue inconfondibili attestazioni d’identità.

Il respiro mi accompagnava ormai senza che ci pensassi e avevo questa connessione con tutto, senza sforzo e senza pensiero. E all’improvviso mi è arrivato un brivido. Non fisico, però. O meglio, l’ho sentito nel corpo ma era più profondo. O più superficiale, forse. Una scossa, come se mi si fosse infilata l’anima in qualche presa di corrente. E la presa era tutta intorno a me, ed era anche il mio corpo.

Mi sveglio in camera mia. Mi metto a pulire il pavimento con una scopa di paglia. Ricordo quando ho comprato quella scopa, e nello stesso tempo so di non aver mai avuto una scopa di paglia. Il giallo dei suoi fili e l’arancione e il verde dei cordini che li tengono insieme sono l’unico colore nel grigio della penombra. Sotto il calorifero, tra il pavimento e le pareti della stanza corre un distacco di un paio di centimetri, da cui indovino il piano inferiore e ancora più sotto le profondità del palazzo in cui vivo, le sue tubature e i suoi ingranaggi, giù fino al fango rovente del centro della Terra.

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