Come scrive Stevenson: «Jekyll considerava Hyde, malgrado tutta l’energia vitale di costui, qualcosa non solo di diabolico ma di inorganico. Questo l’offendeva maggiormente, che la melma dell’abisso pretendesse di emettere grida e voci, che la polvere amorfa gesticolasse e peccasse, che una cosa morta e priva di consistenza usurpasse le funzioni della vita».

Che poi se qualcuno, vòto di colpa, era incappato per caso nella sua amicizia, con la quotidiana frequentazione e la lusinga facilmente veniva reso uguale e simile agli altri. In summo grado, però, andava cercando, come amici, gli adolescenti; la loro mente, in ragione dell’età, debole e volubile veniva conquistata senza ostacolo.

La potenza narrativa di una mera sequenza di nomi è prova da un lato della nostra sete di storie (che per una volta non siano la nostra storia), dall’altro del potere magico delle parole. Magico ovvero libero da un senso preciso. I nomi propri sono per noi come parole sconosciute: di fronte a loro siamo come neonati che non capiscono quello che gli si dice; ed essendo appunto l’infanzia la sola età in cui il linguaggio si manifesta completamente e propriamente come mistero, la nostra lettura dei nomi propri avviene sempre in modo misterioso, ovvero estatico.

Erano tempi di straordinari fermenti militari, e l’allora tenente Lagioia seppe approfittarne, bruciando le tappe di una carriera nel Regio Esercito onusta di onorificenze e distinzioni, benché non scevra delle becere invidie dei suoi antichi commilitoni. Nel 2011 capì che finalmente era giunto il momento e, alla guida delle fedelissime truppe di ascari «tutto stupore e ferocia», mosse alla conquista dell’Urbe.

La debolezza umana del letterato dalla coscienza sempre incerta si era già adombrata nelle correzioni finali di una canzone, in cui Santagata mette magistralmente a frutto la conoscenza filologica e variantistica per illuminare in narrazione un carattere: la verità nichilistica di “nessuna sopravvivenza in terra, ma anche nessuna vita dopo la morte. Il male e il nulla. Un lampo di luce il buio perfetto. Questo è tutto: un niente”.

Ogni artista cerca di smontare il meccanismo della sua tecnica per vedere com’è fatta e per servirsene, se mai, a freddo. Tuttavia, un’opera d’arte riesce soltanto quando per l’artista essa ha qualcosa di misterioso. Naturale: la storia di un artista è il successivo superamento della tecnica usata nell’opera precedente, con una creazione che suppone una legge estetica più complessa. L’autocritica è un mezzo di superare se stessi. L’artista che non analizza e non distrugge continuamente la sua tecnica è un poveretto.

(Lei ora taceva, fissandolo, le pareti della stanza elettrificate dalla sua rabbia, e senza un motivo apparente il plasma del televisore alle sue spalle si mise a crepitare e l’apparecchio si sintonizzò sullo spot di un nuovo software, insinuando il suo borbottio nella lite).

Quando la produzione industriale degli oggetti domestici ha assunto dimensioni di massa è emerso infatti il bisogno di qualcosa in più, di una dimensione simbolica e trascendente dell’oggetto, il Paradiso terrestre a cui l’acquisto di quel particolare prodotto ci avrebbe aperto le porte, rendendo definitiva la nostra identificazione mediante il possesso. La pubblicità in fondo è servita a costruire questo Aldilà degli oggetti.

Il flauto stridulo di Per un pugno di dollari, semiscala discendente che è l’esatta versione speculare dello zufolo con cui Papageno risponde al richiamo di Tamino nel Zauberflöte, e come quel flauto ogni segmento tematico che Morricone sbriciola lungo i “suoi” film, è come una lama invisibile il cui scatto libera immediatamente i personaggi di quelle lardosità che usiamo chiamare “psicologia”, restituendo loro la grazia terribile della marionetta.

“Scrittore” si è percepito solo dopo aver pubblicato due libri, Se questo è un uomo e La tregua, oltre i 45 anni, quando il “mestiere” di scrivere ha cominciato a prevalere sul di lui lavoro quotidiano, quello di chimico, senza che vi fosse una scelta deliberata e consapevole, anzi vestendolo di panni non propri, come avrà a dire.

Sensazioni di un futuro che sapevo ci sarebbe stato, in qualche modo. Sapevo che, da ragazza, avrei cercato di nuovo questa possibilità di essere persa da qualche parte del mondo. Quando, con lo zaino in spalla, mi sarei lasciata andare a strade assolate e vuote, a paesaggi senza arrivo sicuro, a itinerari scelti dalle correnti del vento.

Un sentimento quasi dolce invade il protagonista colpito alla schiena, che nella notte mischia il corpo abbandonato con la natura, in un suggello drammatico, forse prevedibile, ma comunque decisamente riuscito sul piano narrativo. Tanto da fare di Bartolini e del suo romanzo uno tra i migliori rappresentanti di quella seconda fila, dietro ai Fenoglio, Calvino, Meneghello.

In conclusione, care amiche, vivo in un catatonico stato d’eccezione – come direbbe quel furetto dell’Agamben –, nel periclitante deserto di un con-dominio fin troppo affollato – come scriverebbe quel bel tomo dello Žižek – e, per giunta, le mie riserve etiliche si stanno esaurendo più rapidamente del previsto.

Inoltre ordiniamo alla vostra venerabile assemblea di riferire ai maestri di letteratura in servizio che allo stesso modo in cui vengono a sapere della nostra preoccupazione in merito ai loro salari, così sappiano che con maggiore impegno devono perfezionare lo sviluppo educativo dei giovani.

Pur essendo la Berlino degli anni dopo la riunificazione l’immediato sfondo geografico e storico, proprio il fatto che il poemetto sia ambientato in diversi e particolarmente significativi luoghi di Berlino fa sì che la capitale tedesca vi sia presente con tutto il suo enorme portato culturale.

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