Se non fosse stata la droga, la guerra. Il primo segno forse lì: sparpagliate sul letto, le fogliate da diecimila lire, sciorinate una accanto all’altra, ricompensa della repubblica per il sangue nemico versato, esibite a chiunque entrasse.

Andare a piedi, portare (letteralmente portare sulle gambe e sui piedi che si muovono) il proprio corpo attraverso strade di città, edifici, strade e sentieri fuori della città, attraverso boschi, lungo corsi d’acqua è scrittura in atto e preludio alla scrittura che si materializzerà sul foglio.

Posso tirarmi giù dagli scaffali, allora. E tenere il passato con me, senza paura di annullarlo. Accanto ai miei gesti e sentimenti di ora. Posso anche lasciarlo andare, perché in realtà lui è già oltre. Sta in ogni particella di dopo che esiste.

Eppure un furore, l’unico degno di essere per me scolpito dentro il libro della giovinezza, lo avemmo anche noi: il giorno dopo i funerali di Berlinguer, si era alla fine oramai della scuola, mancava per entrambi un mucchietto di mesi per diventare maggiorenni, con Marcello ci andammo a iscrivere al partito.

Poi un suono che ancora gli rimaneva nelle orecchie come se tutti gli arlecchini fossero scattati sull’attenti per farlo a pezzi con le loro corna di cervo lo fece sporgere oltre la sponda del letto, e vomitò.

Al di là delle questioni che aveva affrontato perché rispondevano alla sua sensibilità, si stendeva un territorio indefinito che aveva trascurato considerandolo inessenziale, e che invece andava preso sul serio come non aveva mai fatto in precedenza. Il primo passo avanti doveva quindi essere un umile passo indietro.

Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo il brano dal titolo “Papà”, tratto dal libro di Livio Borriello La tigre assenza (Terre Blu, 2022).

Pedalo in una strada in salita e sotto di me vedo la luna e l’ombra nera di un castello volante e fabbriche colorate disseminate in un prato e grido “È gioioso!” Poi sento il calore di una mano appoggiata contro la mia schiena.

E sembra naturale, istintivo levare lo sguardo in su (si deve piegare di molto la testa all’indietro) per provare a capire in quali punti del cielo le due torri appuntite si perdono; a me capita puntualmente (ad Amburgo, a Münster, qui a Colonia, non importa) di udire (e non so spiegare perché, ma sento) il rombo dei bombardieri in formazione sulle città tedesche.

Mi rigiro tra le mani una parola: incanto. Lo spunto me l’ha dato a cena una cameriera, parlando con una sua collega: “hanno messo all’incanto la casa dei miei nonni”. M’è parsa, sulle labbra di questa ragazzotta di vent’anni, un’espressione molto alta, quasi fuori luogo; poi ho pensato all’incanto che mi hanno dato le pitture dei paesaggi, delle architetture che ho visto in questi due giorni.

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